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01/02/23

Il Film del Giorno (su Amazon Prime Video): "Viaggio in Inghilterra" di Richard Attenborough, sulla vicenda umana del grande C. S. Lewis



Mi sono incuriosito leggendolo più volte citato in un luogo inaspettato, ovvero il libro di memorie di Andre Agassi, "Open".
Sono andato allora alla ricerca di questo film uscito nell'ormai lontano 1993 e diretto da "Sir" Richard Attenborough.
In Italiano fu chiamato (inspiegabilmente) "Viaggio in Inghilterra", mentre il titolo in inglese era molto evocativo: Shadowlands (Le Terre dell'Ombra).
Si tratta della vera vicenda di Clive Staples Lewis, uno dei più grandi scrittori e intellettuali del XX secolo britannico, autore della saga di Narnia, e di una quantità di saggi e altri romanzi e testi, quasi tutti pubblicati in Italia da Adelphi.
Lewis lo conosco molto bene: lui era uno dei dieci autori che ho scelto per "Cercare Dio", il saggio che ho pubblicato con Castelvecchi nel 2018.
Perciò temevo un po' la ricostruzione della storia della sua vita e in particolare del suo tragico amore con l'americana Joy Gresham, che cambiò del tutto la sua vita, regalandogli una felicità insperata, totale, purtroppo stroncata quasi subito dalla malattia che portò Joy alla morte nel giro di pochi anni.
Il film è molto bello, nel suo classicismo. Lo nobilitano le interpretazioni di Anthony Hopkins e di Debra Winger, nei panni di Joy che per questo film fu candidata all'Oscar.
Certo Hopkins è molto più bello e fascinoso di quanto fosse nella vita il vero Lewis. Ma lui riesce a essere altamente credibile anche in questo ruolo.
Il film ha una emozionante luce invernale, tipicamente inglese, dura più di due ore, tocca profondamente e rende il giusto tributo a un regista, Attenborough, che bisognerebbe rivalutare.

15/10/18

Bergman, Le Rovine e l'Ombra, Cercare Dio: Un articolo di Raoul Precht per "Succede oggi".


A cent'anni dalla nascita, è tempo di tornare alla lezione di Ingmar Bergman: un invito costante alla curiosità, al porsi anche quesiti profondi e assillanti. 

È tutto questo ciò che evita alla vita di non essere altro che un vuoto senza fine. 

Durante un’intervista, quando gli domandarono quali fossero le qualità di un buon disegnatore di fumetti, Charles M. Schulz rispose che bisognava essere bravi a scrivere ma non troppo, altrimenti si sarebbe stati degli scrittori; bravi a disegnare ma non troppo, altrimenti si sarebbe stati dei pittori, e che insomma la prima virtù era una specie di aurea mediocrità in tutte le discipline contigue. 

Mi è tornata in mente, questa definizione, leggendo quello che scriveva da parte sua Ingmar Bergman in un discorso destinato alla cerimonia dell’Erasmus Award nella primavera del 1965, cerimonia cui poi non poté partecipare perché malato. 

In questo testo autobiografico, Bergman sosteneva che per lui la scelta di fare cinema era stata quasi obbligata, poiché era taciturno e non aveva mai avuto troppe parole a disposizione, era incapace di fare musica e insensibile all’arte

Il cinema, che queste abilità non richiedeva, o almeno non in misura eccessiva, lo aveva salvato: gli aveva permesso di esprimersi anche in loro assenza e di comunicare con l’universo che lo circondava

Nello stesso discorso, Bergman sottolineava però anche di essersi ormai reso conto, man mano che gli anni avanzavano, di quanto l’arte in genere, e non solo il cinema, stesse perdendo sempre più d’importanza, importanza inversamente proporzionale all’investimento emotivo e pratico che gli artisti e chi li circonda continuano a farvi confluire, e di come alla fin fine la sola giustificazione della sua continua sperimentazione si riducesse a un’inesauribile e salvifica curiosità.

Di Bergman ho voluto rivedere di recente alcuni film considerati unanimemente dei capolavori, e la prima reazione è stata di stupore per la loro tenuta nel tempo. 

Certo, dagli anni Cinquanta e Sessanta a oggi le tecniche cinematografiche si sono completamente trasformate, e quelli che a quei tempi erano colpi di genio oggi potrebbero sembrarci delle ingenuità, ma questo in fondo è un dettaglio.

La verità è un’altra, e molto più sorprendente: anche se questi film non venissero visionati, per ipotesi, col senno del poi, inquadrandoli cioè nel loro contesto storico e temporale, ma come se fossero stati invece girati ieri, ebbene, ci apparirebbero comunque di una freschezza e di un’attualità che hanno del miracoloso

Lo stesso vale, e anche questo ha del portentoso, per le tematiche che Bergman affronta e che sembrano davvero universali. 

Prendiamo un tema per tutti: quello della fede e dei suoi limiti

Nei suoi due ultimi libri, Le rovine e l’ombra e Cercare Dio, entrambi editi da Castelvecchi, Fabrizio Falconi dedica numerose pagine alla figura di Bergman, rimarcando fra le altre cose come fosse stato definito con un ossimoro un «ateo cristiano»: di sicuro, la sua vicenda biografica comincia con una contrapposizione radicale al padre, un rigido predicatore luterano che infliggeva punizioni a tutta la famiglia; era coadiuvato in questo dalla cuoca, leggo, che soleva rinchiuderne i figli in un ripostiglio dove a suo dire un mostriciattolo si nutriva delle dita dei bambini cattivi.



                     

Non stupisce che uno dei principali messaggi dell’opera di Bergman sia il disprezzo per una religione ridotta a pura apparenza, al cui riparo si possono compiere azioni vergognose. 

Al di là di quest’aspetto, che stigmatizza più le istituzioni religiose – il padre diventerà cappellano alla Corte reale di Svezia – che la fede in quanto tale, le difficoltà insite nella ricerca religiosa, nella ricerca di Dio, compaiono in quasi tutti i film, e in molti sono in primo piano: si pensi solo a Luci d’inverno, secondo film della trilogia dedicata appunto ai dilemmi religiosi, che mostra i dubbi e le perplessità in cui si dibatte un pastore protestante cui Dio sembra sempre più lontano

Ma prima ancora, ci si ricordi del cavaliere del Settimo sigillo e della sua accorata invocazione: «Ma perché, perché non è possibile cogliere Dio coi propri sensi? Per quale ragione si nasconde tra mille e mille promesse, e preghiere sussurrate, e incomprensibili miracoli?». E soprattutto dell’emblematica conclusione: «Perché io dovrei avere fede nella fede degli altri?»

Se è vero che dell’opera di Bergman sono state avallate le interpretazioni ideologicamente più diverse, e che quindi bisogna procedere sempre con i piedi di piombo, trattandosi oltretutto di una traiettoria lunghissima, è anche assodato che la ricerca di una via verso la spiritualità, che consenta di trascendere e superare l’immedicabile tristezza della vita, è e resta uno dei temi dominanti della sua poetica. 

Quando, sempre nel Settimo sigillo, ha luogo la famosa conversazione fra il protagonista e la morte, e questa allude alla possibilità che Dio non esista – perché anche il silenzio che Dio oppone agli uomini può essere eloquente –, il cavaliere sbotta: «Ma allora la vita non è che un vuoto senza fine: nessuno può vivere sapendo di dover morire un giorno come cadendo nel Nulla, senza speranza». (Eppure, chiosa la morte, «molta gente non pensa né alla morte né alla vanità delle cose»). 

Molti film successivi, dal Posto delle fragole a Sussurri e grida, inducono a pensare che per Bergman quest’aporia non sia risolvibile, ma che al massimo il dolore del vivere possa essere lenito dalla vicinanza di altri esseri, dalla loro intima solidarietà

Se Dio tace o non c’è, solo l’uomo è in grado di aiutare i propri simili a sopportare la vita. In questo senso può essere letto anche un altro momento cruciale, uno dei mirabolanti sogni (o meglio incubi) del Posto delle fragole: quando l’anziano professor Borg, un illustre medico, sogna di dover superare un esame, il quesito cui non sa rispondere viene risolto in modo inaspettato. Per lunghi anni Borg ha infatti esercitato la professione senza apparentemente sapere quale sia, del medico, il primo dovere; e questo dovere, scopriamo, è di chiedere scusa. 

Nel contesto del film, e poi di tutta l’opera bergmanniana, la frase deve essere interpretata come una messa in discussione del ruolo dell’intellettuale, che allontanandosi dalla gente semplice mostra superbia e arroganza; mentre l’unico farmaco vero che il medico può dispensare non è un composto chimico, ma umano, e ha una duplice valenza, essendo costituito da un lato dalla consapevolezza dei propri limiti e dall’altro dalla vicinanza al malato, e dunque, ancora una volta, dalla solidarietà umana

Neanche la morte, cui il medico è chiamato più di altri ad assistere, corrisponde mai a una soluzione, o permette un chiarimento; né per l’essere che se ne va (ma dove?), né per coloro che restano e devono fare i conti con l’assenza. 

Semmai, essa aumenta il peso specifico dell’Unheimlich che ci circonda e di cui non sappiamo liberarci

Non a caso, alla fine del film e del suo viaggio o percorso iniziatico la sola cosa che il protagonista potrà fare, dopo una vita sprecata perché immolata sull’altare dell’egoismo, sarà convincere il figlio (anche lui medico) a non ripercorrerne i passi. 

All’approfondimento dei grandi temi esistenziali corrisponde in Bergman – di cui ricorrono oggi i cent’anni dalla nascita – una semplificazione sempre più evidente degli elementi che giungono a creare la composizione filmica. 

Il commento musicale è ridotto al minimo e si ispira spesso al modello d’austerità di Bach, le scenografie diventano – si pensi a Sussurri e grida o ancora di più a Persona – quasi solo macchie di colore. 

Acquistano sempre più visibilità e spessore i volti, soprattutto quelli femminili, percorsi da Bergman con un’insistenza quasi feticistica, con una dolorosa passione. 

Volti di donne (da Ingrid Thulin a Bibi Andersson, da Liv Ullmann all’ultima moglie, Ingrid von Rosen) che sovente sono state sue compagne, con alterne vicende, anche nella vita. 

Questa semplificazione progressiva, di un rigore luterano, la si ritrova – volendo tentare una definizione lapidaria – anche nella trattazione dei soggetti: parallelamente, si passa infatti dalla ricerca di risposte alle proprie angosce e al senso d’inutilità dell’artista (anni ’50) alla disperazione e allo sconforto metafisico (primi anni ’60), all’isolamento anche fisico dell’artista (seconda metà degli anni ’60) che corrisponde al volontario ritiro di Bergman, fin dal 1966, sull’isola di Fårö, fino alla sofferta partecipazione alla solitudine e al dolore di ciascun individuo (anni ’70). 

Alla berlina vengono messi costantemente l’apparente benessere e l’illusione della felicità personale, egoistica appunto, che la società dei consumi avrebbe offerto all’individuo, ma le cui facili lusinghe sono invece regolarmente smentite dalla profonda incomunicabilità fra gli esseri umani

Bergman ci ha lasciato un autentico patrimonio d’immagini, storie e momenti indimenticabili, un distillato delle grandi e irrisolte questioni che continuano ad agitarci. Il tentativo di una risposta, ispirata, come lui stesso suggeriva, alla curiosità, è forse ancora oggi l’unica giustificazione possibile del fare arte, in un mondo che a parere del regista la considera marginale e crede di potervi rinunciare. A suo parere? Ma rispetto a cinquant’anni fa gli spazi della creatività non si sono forse ridotti, se possibile, ancora di più?

03/09/18

L'infanzia di Ingmar Bergman - da "Cercare Dio".


Dieci grandi anime. 8. Ingmar Bergman (1./) 

Per un uomo del Nord, i conti con la solitudine si fanno in fretta.  Non è un caso se il tema della solitudine impregni la cultura scandinava dai suoi primordi. Bergman,  uomo del Nord, lo è stato fino in fondo, come Kierkegaard, August Strindberg e Carl Theodor Dreyer .  Un destino segnato già dal fatto di nascere nella colta Uppsala – patria di Celsius e di Linneo, ma anche di Dag Hammarskjold – e di nascervi da un padre severo pastore luterano (Erik Bergman) e da una madre ambigua e temuta (Karin Akerblom, discendente di una famiglia benestante olandese), in una famiglia costruita – secondo il racconto stesso che ne ha fatto il regista nei suoi film e nella sua autobiografia (1) -  su principi rigidi e oppressivi.  Un clima di freddezza, nel quale sin da piccolo Bergman fu chiamato a sperimentare la solitudine e le difficoltà di comunicazione tra le coscienze degli uomini, che furono due tra i temi dominanti della sua filmografia.

       La solitudine di un uomo consapevole del suo stato è assoluta, disse una volta (2), ma il desiderio di una intesa con gli altri non cessa mai di alimentare una grande speranza. C’è sempre, nella giornata di un uomo, un’ora o un minuto o appena un momento in cui si viene a trovare a contatto con il prossimo. L’arte è un mezzo meraviglioso e forse unico di creare questo magico contatto, di avvicinare gli uomini. 

C’è molto di Bergman, in questa frase.  La solitudine, che pure fu una costante della sua vita - fino agli ultimi anni di totale eremitaggio nell’isola di Faro, immersa nella calma glaciale del Mar Baltico, dove il regista è morto nel 2007 – non gli impedì di ricercare a tutti i costi, e con ogni mezzo che il suo genio gli mise a disposizione,  una forma di comunicazione alta e personale – quasi a cuore aperto -  con ogni uomo che si ponesse di fronte ad un suo nuovo film.

I temi prediletti di Bergman, della sua opera,  la difficoltà della coppia, le insufficienze dell’amore, la morte, la presenza o l’assenza di Dio, il nostro posto nel mondo, sono già tutti scritti nella biografia del grande regista.  Nato  il 14 luglio del 1918,  a pochi mesi dalla fine del primo conflitto mondiale, con la madre ammalata di febbre spagnola, al piccolo Ingmar fu subito impartita l’estrema unzione, perché si riteneva improbabile potesse sopravvivere. “Morirà di denutrizione” decretò il medico.  Invece il bambino sopravvisse, sufficientemente temprato anche per cavarsela negli anni seguenti, quando in famiglia dovette affrontare l’irritabilità paterna – il padre, valente predicatore luterano si spostava nelle chiese di paese, fino a far carriera e divenire addirittura cappellano della Corte Reale – le ansie della madre, e le punizioni che venivano inflitte a lui, al fratello maggiore e alla sorella minore, dalla cuoca Alma, che sadicamente lo rinchiudeva in un oscuro ripostiglio dove viveva “un mostriciattolo che si nutriva mangiando le dita dei bambini cattivi”.   

L’atmosfera familiare vissuta in quegli anni era fu resa in modo magistrale in quel grande affresco che è Fanny & Alexander, il suo film testamento realizzato nel 1982 e vincitore di premi in tutto il mondo – compreso l’Oscar  -  nel quale Bergman descrisse minuziosamente l’ambiente della grande casa di Uppsala, i volti e le presenze dell’infanzia, e in particolar modo il devastante rapporto con la figura paterna, sdoppiata nella immagine mefistofelica del vescovo Vergerus (che nel film è il secondo marito della madre) e in quella di Oscar Ekdahl, il padre buono  e umano che Bergman avrebbe voluto avere.
      
L’infanzia fu per Bergman una esperienza totalizzante. Tutto il suo mondo di adulto è edificato nei o sui primi anni di vita.  Ed è normale, per un artista, ritornarvi continuamente.  In realtà, scrive il regista nella sua autobiografia, io vivo continuamente nella mia infanzia: giro negli appartamenti nella penombra, passeggio per le vie silenziose di Uppsala, e mi fermo davanti alla Sommarhuset ad ascoltare l'enorme betulla a due tronchi, mi sposto con la velocità a secondi, e abito sempre nel mio sogno: di tanto in tanto, faccio una piccola visita alla realtà. (3)


https://www.amazon.it/Cercare-Dio-Dieci-cammini-esemplari/dp/8832822091


1. L’autobiografia di Ingmar Bergman, Lanterna Magica, è pubblicata in Italia da Garzanti, prima edizione ottobre 1987, Milano.
2. La frase attribuita a Bergman è riportata nell’articolo L’arte, unico antidoto alla nostra solitudine,  firmato da Massimo di Forti per il Messaggero, 31 luglio 2007.
3.  Ingmar Bergman, La lanterna magica, op.cit. 

27/03/18

Lunedì 9 aprile 2018 alle ore 19 la Presentazione di "Cercare Dio" a Roma.




Lunedì 9 aprile 2018, alle ore 19, la Presentazione di Cercare Dio, il nuovo libro di Fabrizio Falconi, edito da Castelvecchi, alla Sala Baldini, in Piazza Campitelli 9, a Roma. 

Insieme all'autore, interverranno Andrea Lonaro, direttore dell'Ufficio Cultura e Università della Diocesi di Roma e Antonella Palermo, giornalista e conduttrice di Radio Vaticana e poeta. 




03/03/18

Dieci foto, le Dieci Grandi Anime di cui si parla in "Cercare Dio" di Fabrizio Falconi.

Ecco dieci ritratti delle dieci Grandi Anime di cui si parla in Cercare Dio, di Fabrizio Falconi, appena uscito da Castelvecchi Editore, in tutte le librerie. 

Etty Hillesum (1914-1943)

Jiddu Krishnamurti (1895-1986)

Ingmar Bergman (1918-2007)

Frère Roger Schutz (1915-2005)

Dag Hammarskjöld (1905 – 1961)

Antonia Pozzi (1912-1938)

Andrej Tarkovskij (1932-1986)


Raimon Panikkar (1918-2010)


Clive Staples Lewis (1898 – 1963)


Pavel Florenskij (1882-1937)


14/01/18

11/01/18

Esce a Febbraio 2018 "Cercare Dio", il nuovo libro di Fabrizio Falconi.




E' in uscita a Febbraio 2018 "Cercare Dio", il nuovo libro di Fabrizio Falconi

Sinossi

Dieci ritratti di grandi personalità, di grandi anime che hanno fatto della ricerca interiore spirituale lo scopo di vita, ciascuno nel proprio campo: filosofi come Panikkar, poeti come Antonia Pozzi, morta suicida per amore e troppa sensibilità o registi di film che fanno parte del patrimonio dell’umanità come Ingmar Bergman e Andrej Tarkovskij, scrittori come C.S. Lewis, l’inventore di Narnia, guide spirituali come Krishnamurti il cui pensiero continua fortemente a influenzare la modernità o Frère Roger, fondatore della Comunità di Taizé, dove vanno ogni anni migliaia di persone, testimoni del dialogo interiore che oggi vengono riletti in tutto il mondo come Etty Hillesum, morta ad Auschwitz o il segretario generale dell’ONU Dag Hammarskjold, ucciso in un attentato, che ha lasciato un diario interiore tra le testimonianze più alte del Novecento.  I dieci agili profili  ripercorrono le vicende umane e personali – attraverso citazioni, brani di meditazione, scritti, diari – con gli interrogativi, i dubbi e le illuminazioni di cui questi uomini hanno lasciato testimonianza, e che restano come orientamento e traccia sulle  questioni fondamentali di sempre, in tempi apparentemente sempre più confusi.

  
Quotes

Saper ascoltare e vedere ciò che dentro di noi è nel buio. E nel silenzio. (Dag Hammarskjold); Dobbiamo abbandonare i nostri pregiudizi. Noi non sappiamo vedere. Dio solo vede e ci insegna ad amare il nostro prossimo. (Andrej Tarkovskij); Signore, per tutto il mio pianto,/ridammi una stilla di Te,/ch’io riviva. (Antonia Pozzi); Dio è qualcosa di cui non si può parlare. (Krishnamurti); E se la fede non trasforma la mia vita, allora questa fede è morta. (Raimòn Panikkar); Non so se l’amore dimostri l’esistenza di Dio o se l’amore sia Dio stesso… Questo pensiero è il solo conforto alla mia miseria e alla mia disperazione (Ingmar Bergman); In fondo la mia vita è un ininterrotto ascoltar dentro me stessa, gli altri, Dio. (Etty Hillesum).




Dov’è Dio ? La domanda che i nostri anni sembrano aver seppellito e che invece è sempre viva, più che mai viva nel cuore di ogni uomo.