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30/09/22

La Rovina del Gioco (o Ludopatia) - Dostoevskij e Puskin

 


   Interrompere l’illusione, fermarsi in tempo, ragionare, essere prudenti: virtù sconosciute agli amanti del rischio del gioco. Sicuri lasciapassare per la rovina.

   «Domani, domani tutto finirà», è il mantra che ripete Aleksej Ivanovic il giovane precettore protagonista de Il giocatore (1866). Nel teatro popolato da ludopatici seriali messo in scena da Dostoevskij il domani è l’opzione, la vera scommessa.

   Aristocratici e poveri, inebriati dalla fede nel dèmone del Caso, credono di poterne cavalcare la soma imbizzarrita.  Perdere è oggi. Vincere è domani. C’è un domani in cui si vincerà, e tutto finirà.  E anche se si vincesse oggi, c’è ancora un altro domani da sfidare.

   Il virus è contagioso e quasi mai si guarisce.

   Lo spirito russo, così profondamente incardinato sull’eterna sfida alla minaccia incombente del Destino e del Caso aveva già trovato un analogo eroe ne La dama di picche di Puskin (1834), con l’apparentemente imperturbabile  protagonista Hermann, giovane ufficiale che si sente immune – per pura fede nella volontà, essendone infatti potentemente attratto – dal vizio del gioco e che finisce per diventarne succube nel modo più imprevedibile: un commilitone gli rivela infatti che una nobildonna, sua nonna, conosce il segreto per vincere infallibilmente al gioco delle tre carte (arcano trasmessole nientemeno che dal Conte di Saint-Germain in persona).

   Hermann viene introdotto con il favore della dama di compagnia nell’appartamento della duchessa, ma questa spaventata dall’irruzione, dalle insistenze e dalle minacce, muore sul colpo  prima di rivelare il mistero.

   Sarebbe la salvezza di Hermann, se non fosse che la rovina si ripresenta sotto forma di sogno prima e di un fantasma poi: sotto queste sembianze la nobildonna promette al giovane di svelargli la combinazione vincente – tre, sette e asso – ad una condizione: che esso sposi la sua prediletta dama di compagnia.

   L’ossessione è irresistibile. Hermann vi soggiace.

   Si decide finalmente a vincere la prudenza del raziocinio e sfida la sorte, ma senza ottemperare alla richiesta del matrimonio preventivo. E se il sette e il tre si confermano vincenti, al posto dell’asso, il mazzo sfodera la donna di picche, sotto l’effige della quale si riconoscono i lineamenti beffardi della vecchia contessa. La rovina ingoia così anche il povero Hermann, che diventa pazzo.

Tratto da: Fabrizio Falconi, Le Rovine e l'Ombra, Castelvecchi editore, Roma, 2017





16/11/18

Il Caso in Amore e Milan Kundera.






Non certo la necessità, bensì il caso è pieno di magia. Se l'amore deve essere indimenticabile, fin dal primo istante devono posarsi su di esso le coincidenze, come uccelli sulle spalle di Francesco d'Assisi.


11/02/18

Michio Kaku: "Il caso non esiste. C'è una forza intelligente che governa tutto".



Fisico e teorico americano molto rispettato, Michio Kaku, famoso per la formulazione della teoria rivoluzionaria delle stringhe (modello di fisica fondamentale che presuppone che le particelle materiali apparentemente specifici sono in realtà “stati vibrazionali”), ha recentemente causato una piccola scossa nella comunità scientifica sostenendo di aver trovato le prove dell’esistenza di una forza sconosciuta e intelligente che governa la natura. Più semplicemente, qualcuno di simile al concetto che molti hanno di Dio come creatore e organizzatore dell’universo. Per arrivare a questa conclusione Michio Kaku ha utilizzato una nuova tecnologia creata nel 2005 e che gli ha permesso di analizzare il comportamento della materia su scala subatomica, basandosi su un “primitivo tachioni semi-radio”. Tachioni, incidentalmente, sono tutte quelle ipotetiche particelle in grado di muoversi a velocità superluminali, cioè sono particelle teoriche, prive di qualsiasi contatto con l’universo. Quindi questa materia è pura, totalmente libera dalle influenze dell’universo che la circonda.

Secondo il fisico, osservando il comportamento di questi tachioni in diversi esperimenti, si arriva alla conclusione che gli esseri umani vivono in una sorta di “Matrice”, cioè un mondo governato da leggi e principi concepiti da una specie di grande architetto intelligente

“Sono giunto alla conclusione che siamo in un mondo fatto da regole create da un’intelligenza, non molto diversa da un gioco per computer, ma naturalmente, più complessa”, ha detto lo scienziato.

Analizzando il comportamento della materia a scala subatomica, colpiti dalle primitive tachioni semi-radio , un piccolo punto nello spazio per la prima volta nella storia, totalmente libero da ogni influenza dell’universo, la materia, la forza o la legge, è percepito il caos assoluto in forma inedita . 

“Credetemi, tutto quello che fino a oggi abbiamo chiamato caso, non ha alcun significato, per me è chiaro che siamo in un piano governato da regole create e non determinate dalle possibilità universali, Dio è un gran matematico” ha detto lo scienziato .

Michio Kaku ha ricordato che “qualcuno fece ad Einstein la grande domanda: c’è un Dio? Al che Einstein rispose dicendo che credeva in un Dio rappresentato dall’ordine, dall’armonia, dalla bellezza, dalla semplicità e dall’eleganza, il Dio di Spinoza. L’universo potrebbe essere caotico e brutto, invece è bello, semplice e governato da semplici regole matematiche. ”

Per quanto riguarda la formulazione del famoso “String Campo Theory”, o teoria delle stringhe, modello fondamentale della fisica che presuppone che particelle di materiale apparentemente specifici sono effettivamente “stati vibrazionali” un oggetto esteso più base chiamato ” corda “o” filamento “che renderebbe un elettrone, per esempio, non un” punto “struttura interna e dimensione zero, ma una massa di minuscole corde vibranti in uno spazio-tempo di più di quattro dimensioni , Kaku ha affermato che “per lungo tempo ho lavorato su questa teoria, che si basa su musica o piccole corde vibranti che ci danno le particelle che vediamo in natura. Le leggi della chimica con cui abbiamo avuto problemi alle superiori, sarebbero le melodie che possono essere suonate su queste corde vibranti. L’universo, sarebbe una sinfonia di queste corde vibranti e la mente di Dio, su cui Einstein scrisse molto, sarebbe la musica cosmica che risuona attraverso questo nirvana, attraverso uno spazio iper-dimensionale “.

Il fisico americano di origine giapponese ha concluso che “i fisici sono gli unici scienziati che possono pronunciare la parola “Dio” e non arrossire. 

Il fatto essenziale è che queste sono domande cosmiche di esistenza e significato. Thomas Huxley, il grande biologo del secolo scorso, ha affermato che la questione di tutte le questioni della scienza e della religione è determinare il nostro posto e il nostro vero ruolo nell’universo. Pertanto, scienza e religione trattano la stessa domanda. Tuttavia, c’è stato essenzialmente un divorzio nel secolo scorso, più o meno, tra scienza e umanesimo, e penso che sia molto triste che non parliamo più la stessa lingua “.


06/02/16

Il Destino, una parola fuori moda.




Anche alle parole, come ai vestiti e ad ogni altra cosa umana, capita di passare di moda. 

Succede ora alla parola Destino, che quasi nessuno ormai pronuncia più.  Fa parte di un comune sentire, che riguarda il tentativo di esorcizzare quello che non comprendiamo e che tutto sommato ci disturba. 

Il pensiero dominante infatti è tetragono oggi nel credere e nell'affermare che in definitiva tutto è sempre nelle nostre mani, tutto possiamo decidere, tutto possiamo scegliere e alla fine siamo noi gli artefici di tutto quello che (ci) accade. 

Una pubblicità della TIM anzi, ultimamente alletta i suoi consumatori con lo slogan: La libertà di non scegliere.  Il sottotesto è che ormai siamo così ricchi, così pieni di opzioni (ricordate l'altro spot della Vodafone: Tutto intorno a te ?) che possiamo anche concederci di non scegliere nulla, tanto - verrebbe da dire - qualcun altro ha scelto per noi, e questo va comunque bene anche per noi. 

Eppure è così evidente - agli antichi questo lo appariva ancor di più, esposti com'erano alle furie naturali, delle guerre, dei massacri, delle epidemie - che c'è una grossa parte di quello che (ci) accade sulla quale noi non abbiamo proprio nessun controllo. 

Per gli spagnoli la parola 'Destino' significa arrivo. Noi per lo stesso significato abbiamo destinazione.  Destino invece, per noi, ha un senso profondamente arcaico che ha sostituito il Fatus dei Romani. 

Le due cose infatti, per i Romani, erano molto diverse. Il Destino  (fortuna) era infatti legato alle caratteristiche umane e si sposava perciò con le volontà individuali (e il libero arbitrio) che determinano la propria sorte.  Il Fatus invece per i romani indicava l'essere sottoposti a una necessità che non si conosce e che non si può controllare. Che appare come casuale (ma per i romani non lo è). 

Oggi per noi Destino significa il Fatus dei Romani. E come ogni cosa che non comprendiamo, tendiamo a rimuovere.  Se proprio poi si deve dedicare attenzione a questo fenomeno degli eventi, vi si attribuiscono gli attributi di caso, accidente, fatalità.

Eppure la tradizione umana, in occidente come in oriente, ha sempre attribuito al Destino, cioè al Fato, una caratteristica non legata fondamentalmente/esclusivamente al caso. Che un vaso di fiori cada in testa ad un passante dunque, è certamente casuale.   Ma sotto questo mantello del caso inviolabile,  la tradizione orientale ha individuato le più diverse necessità del Karma (per i buddhisti), quella occidentale un disegno non leggibile dagli umani, ma che può essere variamente interpretato, fino alle moderne scuole di psicologia del Novecento. 

Tutto questo appare oggi cancellato.  Tutto è nelle nostre mani.  E quel (poco) che non è nelle nostre mani è puro caso ( e questo sentire è ad esempio diffusissimo anche tra chi si dichiara credente di una qualche confessione religiosa), ruota della roulette. E quindi, non vale nemmeno la pena di discuterne.

Ecco dunque che si spiegano le reazioni nevrotiche di fronte ai grandi e improvvisi lutti, alle grandi e improvvise tragedie, di fronte alle quali siamo sempre più impreparati, senza strumenti (anche soltanto interpretativi) di qualunque senso. 

Fabrizio Falconi

foto in testa: frame dal video Losing my religion, dei R.E.M.


10/02/15

Saul Bellow: "Il mio lavoro è essere me stesso."



"Ho delle risposte e ho anche delle domande, e con questo voglio dire che ho smesso da un po' di cercare qualcosa di definitivo.  Ho l'impressione di credere in cose in cui non ho mai pensato di credere, e che agiscono che io voglia o no. Quindi non si tratta di rifletterci sopra, ma di imparare a conviverci. 


E bisogna accettare il fatto che stai cercando di convivere con le preferenze o con le decisioni segrete di cui un modo o nell'altro non sei mai riuscito a liberarti. E non te ne libererai mai. Adesso lo sai. Per esempio, ho smesso di tormentarmi riguardo alla fede in Dio. Non è una domanda vera.


La domanda vera è: "Come mi sono sentito in tutti questi anni?" e "In questi anni ho creduto in Dio?" tutto qui. Cosa ci puoi fare ? Non si tratta dunque di liberare l'intelletto dai vincoli, si tratta innanzitutto di cercare di decidere se la fede sia un vincolo e poi accettare ciò in cui si crede, perché per ora è ciò che possiamo fare." 

Allora torniamo alla scrittura, la tua immagine...

"Il mio lavoro è essere me stesso. E nell'essere me stesso divento un fenomenologo elementare, o fondamentale.   
Ed è così che faccio tornare i conti, prima di andarmene.  Mi chiedi cosa significa essere un artista. Prima di tutto vedi ciò che non hai mai visto prima; hai aperto gli occhi e c'era il mondo; il mondo era un posto molto strano; ne hai ricavato la tua versione, non quella di qualcun altro; e sei rimasto fedele alla tua versione e a quello che hai visto.  Credo che, in senso personale, sia questa la radice del mio essere scrittore. E tu sai perfettamente di cosa sto parlando."

Cosa pensi del mondo?

"Be' posso dire senza alcun problema che non credo che il mondo si sia sviluppato o evoluto in maniera casuale e non diretto da una intelligenza superiore.
Non può essere stato casuale.  Una volta ho avuto una discussione con un famoso biologo che sosteneva: " Se c'è abbastanza tempo può accadere in base a un processo casuale, e visto che sono passati miliardi e miliardi di anni, il tempo c'è stato."  Io ho risposto: "Sufficiente a spiegare l'equilibrio ormonale nel corpo di una donna incinta ? Aleatorio ? Io non credo."  Non credo che sia andata così, questo è il mio scetticismo naturale, diretto contro la scienza, non contro la religione.

Ci fu una famosa controversia, forse un litigio tra Einstein e Bohr. Bohr aveva una visione diversa - sul grande gioco della natura, sul fatto che sia casuale - ed Einstein gli disse: "Senti, io non credo. Sono d'accordo che Dio giochi, e quel gioco non lo capiamo, ma sappiamo comunque che si tratta di un gioco."

"Sì adesso me lo ricordo. Non dico che le conclusioni cui sono giunte siano quelle corrette.  Quello che dico è che è arrivato il momento di fingere che io non ci creda.  In un certo senso ci credo. Uso la conoscenza che ho accumulato in ottantacinque anni. Lo applico a queste domande e mi dico: come può tutto questo essere il risultato di miliardi di episodi casuali ? E' impossibile."



Tratto da Saul Bellow, "Prima di andarsene", Una conversazione con Norman Manea, Il Saggiatore, 2013. 




12/01/15

Facciamo pace con il caso - Un bellissimo articolo di Donatella Di Cesare (La lettura, 11 gennaio 2015)





Un bellissimo articolo di Donatella Di Cesare su La Lettura di ieri


Circa due terzi dei tumori non sarebbero riconducibili né alle predisposizioni ereditarie né ai fattori ambientali né, tanto meno, allo stile di vita. 

Lo sostengono, sulla prestigiosa rivista «Science», il genetista Bert Vogelstein e il matematico Cristian Tomasetti.

Il risultato della ricerca, condotta sulla base di modelli molto complessi, culmina in due parole relativamente ordinarie: bad luck, cattiva sorte. 

Il cancro sarebbe, dunque, in gran parte questione di sfortuna. La notizia ha suscitato sconcerto e persino sdegno.

A irritare non è solo lo scarto tra la complessità dei mezzi impiegati e l’apparente banalità dell’esito. Piuttosto è lo spazio che in tal modo la ricerca scientifica concede a un concetto nebuloso come il «caso». Che la guerra contro il cancro debba subire una battuta d’arresto? E per di più sotto i colpi del caso? Non ne viene allora minata la nostra fede incrollabile nella scienza? Dovremmo ammettere di esserci sbagliati confidando, per il nostro futuro, nei calcoli e nelle previsioni della medicina?

Negli ultimi decenni siamo stati portati a considerare normali quei progressi straordinari che hanno modificato, più di quanto non si immagini, il nostro rapporto con la vita. I limiti sono saltati, le frontiere sono state spostate o addirittura rimosse. Sono cambiati genesi, qualità, durata ed esito della vita.
Le aspirazioni più recondite, i desideri più inesaudibili sono diventati realtà: avere figli quando prima non era possibile, guarire da malattie congenite, sconfiggere morbi virulenti. Il prolungamento della vita ha modificato la comprensione che ciascuno ha di sé. Siamo stati presi dall’euforia vertiginosa dell’illimitato. Quel che prima era dettato dalle dure leggi della necessità, o inscritto nella imperscrutabile volontà di Dio, è divenuto risultato di una scelta. In breve: siamo stati educati alla cultura dell’antidestino.

Come potremmo accettare allora che il cancro dipenda in gran parte dal «caso»? E che cosa significa questo termine, che ci si attenderebbe semmai da un filosofo, non da uno scienziato?

Caso, connesso con il verbo cadere, è quel che cade, o meglio, quel che accade — è un evento che sopraggiunge, senza che ci sia una causa evidente, prevista o prevedibile, a provocarlo. L’uso del termine deriva dal gioco dei dadi.

Il caso è la sorte che tocca a ognuno nel grande gioco della vita. 

Ma sono stati gli antichi Greci a riflettere sul concetto — non solo nell’ambito della filosofia. Proprio i primi medici si sono interrogati sulla possibilità di ricorrere alla parola túche, sorte. In uno scritto attribuito a Ippocrate, il fondatore della medicina scientifica, è detto che «caso è un mero nome, non ha sostanza, non significa nulla».

Se la malattia è vista sin dall’inizio come un caso, che disturba il normale fluire della salute, e si manifesta attraverso i sintomi, la medicina prende tuttavia le distanze da un termine che appare sospetto.

Che cosa sarebbe il caso altro che un concetto-limite? Che cosa indicherebbe, se non l’ammissione della propria ignoranza? Non conoscere le cause della malattia, non saperne fornire una spiegazione, non autorizza, per i medici greci, a parlare di «caso».

Bad luck, la formula usata dai ricercatori americani, verrebbe dunque bollata probabilmente dai medici greci come non scientifica. I filosofi sono stati ben più indulgenti. Pur interpretando il caso in modi diversi, lo hanno accolto come parte integrante della vita. Non lo hanno respinto al limite, come quell’ignoto che resta ancora da spiegare. 

Hanno discusso intorno alle differenze tra sorte, fortuna, provvidenza, a seconda delle loro convinzioni e del loro credo, ma non hanno mai smesso di interrogarsi sul ruolo che il caso può svolgere non solo per la felicità umana, ma anche nelle alterne vicende della storia.

Questo non vuol dire diventare fatalisti. «Nessun vincitore crede al caso», scrive Friedrich Nietzsche. E poi che ne sarebbe della libertà? E della responsabilità? Non si può, dunque, pretendere di eliminare, dalla vita umana e dalla storia, l’imprevisto e l’imprevedibile.

Cogliere il momento giusto, assecondare il caso, rimettersi all’incalcolabile, in un difficile equilibrio tra agire e attendere, costituisce la saggezza del vivere. Perciò i filosofi, anche nei tempi più recenti, hanno lanciato un monito contro il ricorso ai calcoli razionali che non di rado si rivelano ingannevoli. Il monito è rivolto anche agli scienziati, sebbene nella scienza le cose stiano diversamente.

Perché il caso viene visto come un singolo fenomeno che devia dalla legge e ne richiede una correzione. Per gli scienziati il caso, che emerge nell’applicazione pratica, rappresenta il compito ulteriore della loro ricerca, quel limite che devono ambire a superare.

Sta qui il progresso della scienza: nella sua costante capacità di rettifica che ne incrementa la attendibilità. Si capisce allora perché, quando si imbatte nell’inatteso, il ricercatore miri non solo a ricondurlo ai canoni scientifici, ma anche a prevederlo. Gioca insomma d’anticipo, con statistiche e calcoli della probabilità. Dopo gli eventi traumatici che il genere umano ha sperimentato negli ultimi decenni, la previsione sembra ormai far parte della responsabilità che il ricercatore si assume verso il mondo.

Che cosa non si tenta oggi di prevedere? Dagli eventi atmosferici all’andamento della Borsa valori, dagli sviluppi demografici ai sondaggi d’opinione. L’uso smodato di misurazioni e calcoli è tuttavia la spia di un atteggiamento che, dalla scienza, si è andato pericolosamente diffondendo nella vita. Il che ha non solo reso sempre più difficile accettare l’imprevisto, ma ha danneggiato il nostro rapporto con il futuro.

Nell’ambito della medicina la questione è ancor più complessa. Come ha scritto il filosofo Hans Jonas, «la medicina è una scienza, ma la professione medica è l’esercizio di un’arte». Si tratta di un’arte che non produce nulla e contribuisce piuttosto a guarire, cioè a ristabilire l’equilibrio del paziente — non senza la partecipazione di quest’ultimo, chiamato alla cura attiva di sé.



17/09/14

Perché una tegola è caduta sulla mia testa ? Perché proprio a me ? Remo Bodei.



Il Sole 24 Ore di Domenica scorsa, 14.9.14 ha anticipato Esorcizzando le nostre incertezze, uno stralcio della lectio magistralis che Remo Bodei terrà venerdì 26 settembre alle 19.30 ai «Dialoghi di Trani» dal 23 al 28 settembre nella cittadina pugliese. 


L'emergenza sembra diventata la norma, una situazione quotidiana dovuta alla maggiore incertezza legata al futuro. Si potrebbe dire con una battuta di Kurt Valentin che «il futuro non è più quello di una volta». Diversi fattori contribuiscono oggi ad accrescere la percezione di una crescente incertezza del futuro, che si riverbera direttamente sulle nostre vite. Le ragioni le conosciamo, ma il solo elencarle aiuta a capire la gravità delle implicazioni. Se non bastassero i timori per gli effetti sul pianeta del riscaldamento globale o per la relativa scarsità o il deterioramento delle risorse naturali non rinnovabili (acqua potabile, idrocarburi, metalli, terre rare), altri fattori umani si aggiungono a rendere più enigmatiche le previsioni del nostro avvenire.

Sono: il terrorismo, il coinvolgimento, fin dagli anni Novanta, di molte nazioni occidentali in nuove guerre, lo spostamento di interi blocchi di potere verso Paesi fino a poco tempo fa considerati emergenti e, soprattutto, la recente crisi finanziaria (che si è trasformata in economica e politica e che ha dimostrato come neppure la democrazia riesca a «disinfettare la ricchezza»). Il futuro è per definizione incerto e rischioso, ma oggi la consapevolezza della sua incidenza si è enormemente accresciuta in un mondo globalizzato le cui le parti sono interconnesse, ma in cui la comprensione dei processi è diventata più opaca e i pericoli non sono sufficientemente calcolabili.

Qualcuno, come il filosofo politico francese Jean-Pierre Dupuy, sostiene addirittura che, da quando l'umanità è divenuta capace di auto-sopprimersi o con le armi di distruzione di massa o con l'alterazione delle condizioni necessarie alla sua sopravvivenza (clima, distruzione delle risorse), il peggio è già avvento e bisogna prepararsi lucidamente ad affrontare la catastrofe mediante una teoria che definisce «catastrofismo illuminato». Non potendoci più situare all'interno di un'epoca che si rapporta a un passato di tradizioni relativamente salde e ben individuate o a un futuro remoto di aspettative già stabilite, l'avvenire sembra riacquistare la sua natura di assoluta contingenza o di luogo di esplicazione di forze che sfuggono al controllo degli uomini (si mostra cioè sostanzialmente improgrammabile o, di nuovo, nelle mani di Dio, il che mostra come il processo di secolarizzazione si sia molto rallentato). Le conseguenze delle nostre azioni diventano sempre più imprevedibili, man mano che il loro raggio di influenza si estende.

Come orientarci allora nei confronti di un futuro aleatorio, preparandoci all'imprevisto? Da sempre le più varie strategie sono state elaborate per limitare i rischi e sconfiggere la casualità, l'incertezza e i rischi (da intendersi come messa in scena e anticipazione di una possibile catastrofe).

Da qui, nel campo specifico della teoria, l'urgenza di comprendere meglio i concetti che usiamo (caso, previsione, incertezza, rischio).

E, questo, per inquadrarli e contribuire così a chiarire le eventuali strategie tese ad aumentare le nostre capacità di previsione e di controllo. Si tratta, del resto di categorie che tutti usiamo quotidianamente e che servono per orientare i nostri pensieri, atti e passioni.

Cercherò di mostrarlo con un esempio popolare, che si può tradurre, per scoprirne le implicazioni, in un più preciso linguaggio filosofico. Immaginate che qualcuno, non voi, in una giornata ventosa decida di andare a prendere le sigarette. Nello stesso periodo, il vento ha smosso una tegola su un tetto. Quando questo qualcuno passa per strada, la tegola gli cade in testa. L'intenzione di andare a prendere le sigarette si chiama causa finale (il mio fine è, appunto, quello di comprare le sigarette); il vento che smuove e poi fa cadere la tegola si chiama causa efficiente, perché produce l'effetto della caduta.

Le due cause hanno una spiegazione immediata facilmente accettabile: la prima di tipo psicologico, legata a una decisione che poteva o non poteva essere presa, la seconda di tipo naturale, legata alla forza combinata del vento e della gravità.

Il caso si inserisce nell'intersezione tra le due cause, nel fatto che quella persona passa in quel punto proprio in quel momento. Due catene di eventi, a loro modo necessari, incrociandosi ne producono uno aleatorio. L'incidente era prevedibile? No, a meno che, per pura ipotesi, fossimo stati in possesso di conoscenze circostanziate sullo stato di ciascuna tegola di quel tetto in quel momento, sulla forza del vento o su eventuali ostacoli nella traiettoria. In questo caso avremmo anche potuto calcolare il punto esatto in cui sarebbe comunque caduta la tegola.

Resta però la questione riguardante la scelta di uscire. Essa dipende dalla volontà del soggetto, la quale a sua volta è mossa, poniamo, dall'urgente bisogno di fumare. Ma, sia per trovare le cause a questo atto forse solo apparentemente libero (come, ad esempio: il suo corpo, abituato al consumo di nicotina, avvertendo una piccola crisi di astinenza, ha mandato un messaggio al cervello), sia per risalire all'indietro ai motivi che hanno fatto cadere la tegola (perché il vento soffiava?), si avvierebbe una regressione all'infinito delle due catene causali che terminerebbe o in una confessione di ignoranza o nell'abbandonarsi alla volontà di Dio.

Estraendo una regola generale da questo esempio, si può dire che, da un lato, si ha una scelta di cui si è certo coscienti, ma di cui si ignorano le motivazioni remote, dall'altro, una serie concatenata di eventi necessari i cui anelli ci sfuggono.

Il prevedere è, tuttavia, un'attività che, più o meno consapevolmente, siamo tutti obbligati a esercitare di continuo. Non potremmo vivere senza quelle congetture che solo a posteriori possono trovare conferma o smentita. La nostra vita è inesorabilmente esposta alla fortuna, al presentarsi di eventi lieti o tristi e da millenni gli uomini cercano di esorcizzarli costruendo baluardi psichici e istituzionali.


foto in testa: Tegola angolare di gronda con testa di acheloo, 310-290 ac.

06/10/12

I-Ching, Jung, il Caso e il Caos.




Parliamo di Caso, di quello che gli uomini chiamano caso, e sarà bene richiamare l'etimologia della parola, che deriva dal latino: casus, dal verbo cadere.

Ed è solo il 'caso' di ricordare che in italiano caso è anagramma di caos, il quale deriva a sua volta dal greco chàos, ovvero abisso.

In tutte e due le parole, quindi, c'è un richiamo al cadere giù, alla profondità: il Caos e il Caso sono forze che ci trattengono giù mentre noi - la volontà umana - cerca di andare su, erigendo costruzioni di ordine e di senso, anche laddove Caos e Caso sembrano regnare sovrani.

In Oriente l'approccio a questo ordine di problema, nel corso dei secoli è stato significativamente diverso da quello occidentale, dove hanno predominato il razionalismo aristotelico e il rigore del metodo empirico.

Il massimo tentativo di ordinamento, di dare ordine ad una linea casuale, in Oriente, è quello rappresentato  dai famosissimi I-Ching. Anche detto Libro dei Mutamenti, uno tra i più vecchi testi cinesi, risalente secondo alcuni a 2.000 anni prima di Cristo.

L'I-Ching è basato su 64 esagrammi, ciascuno composto da sei linee spezzate (energia yin) o intere (energia yang).

Attraverso il ripetuto lancio di tre particolari monete, colui che desidera porre una questione sulla propria vita, costruisce l'esagramma profetico per individuare il responso alla domanda posta.

Le line cosiddette mobili determinano un secondo esagramma, che fornisce le indicazioni circa l'eventuale sviluppo dell'attuale situazione.

Penso sia noto a molti il pensiero di Carl Gustav Jung, a proposito dell'I-Ching, che è bene espresso nella celebre prefazione al testo, nella edizione inglese del libro, stampata nel 1949.

Oggi si trova in molte edizioni - la migliore quella di Adelphi (1991).

Consiglio a tutti questa lettura - sono poche pagine - in cui Jung sembra voler smantellare pezzo per pezzo la nostra concezione moderna, molto occidentale di casualità (e di causalità).

L'I-Ching non ha mai smesso di suscitare interesse e perplessità: come possono sentenze pre-scritte da qualcuno, duemila anni fa in Cina, rispondere casualmente alle mie esigenze, alle domande che io pongo oggi?

Jung spiega come tutta la scienza occidentale sia fondata sul concetto della causalità, considerata come verità assiomatica: tutto ha una spiegazione, e una causa.

L'evoluzione (e in particolare la fisica moderna) ha portato invece l'uomo a capire come quelle che vengono chiamate Leggi Naturali siano soltanto verità statistiche, condannate a contemplare eccezioni e valide soltanto fino alla successiva evidenza contraria. 

Nelle eccezioni alle consolidate Leggi Naturali  - poniamo ad esempio la cosiddetta Energia Oscura dell'Universo, che non obbedisce alle nostre conoscenze attuali - gioca la sua parte il caso.

Così, se noi interpelliamo il meraviglioso libro dell'I-Ching, ottenendone dei responsi sapienziali che sembrano scritti per noi, in quel momento, la causa non sembra da ricercare solo nella abilità degli amanuensi cinesi.

Chiunque abbia provato ad interrogare il libro - con serietà (seguendo le regole, e quindi consultando e studiando solo il libro, secondo le regole), e non attraverso gli orridi giochetti che girano via internet - potrà citare episodi sorprendenti.

Ma, scrive Jung, siamo perplessi soltanto noi, giacché inciampiamo sempre di nuovo nel nostro pregiudizio, ovvero nella nostra nozione di causalità.

Che significa ignorare le molte forze psichiche che sembrano prescindere la nostra volontà razionale, che sono inconsce, ma stranamente in sintonia con un sentire ulteriore (quelli che Jung chiama archetipi). E ci tendono mille trabocchetti alla nostra smania ordinatrice, facendoci appunto scivolare o cadere nel caso.

O - se non sappiamo venirne fuori - nell'abisso del Caos.

Fabrizio Falconi.

22/09/12

Contro il "Pensiero-Corto" dominante.




Penso che sarebbe ora di scrivere un Manifesto contro il Pensiero-Corto. 

Sarà forse dovuto alla mutazione antropologica causata da quella digitale - il fatto che ormai siamo tutti chiamati a pensare in poco, in meno, in sottrazione - ma sembra essere scomparso dall'orizzonte una delle caratteristiche più nobili del pensiero umano: quella di ragionare per sistemi, in grande e in alto e senza esclusioni e preconcetti anche - e soprattutto - di fronte a quello che non comprendiamo.  

E' difficile farlo in un mondo che ti chiede di scrivere - anzi di cinguettare -  in 140 caratteri quello che ti preme nelle meningi. 

Difficile farlo nelle vite sempre più 'a pezzi'  (ricordate l'Harry di Woody Allen ?) frammentate tra mille e apparentemente inutili esigenze di timbrare la nostra presenza in vita (digitale). 

Eppure, a maggior ragione non bisognerebbe rinunciare ad esercitare un pensiero lungo, un pensiero che vada oltre i miseri tracciati delle istanze e dei pregiudizi mentali . 

Il Pensiero-Corto continua ad essere sempre mortificante per chi lo pratica.

Se ne ha un esempio eloquente nel modo limitato in cui spesso si sente liquidare l'indefinito, il misterioso, il non spiegato, il non evidente.

Ci sono molte cose intorno a noi che non comprendiamo e che funzionano. Si pensi al principio omeopatico nel campo medico: nessuno sa come funzioni, però pare proprio che funzioni visto che 300 milioni di persone nel mondo ne fanno uso (11 milioni in Italia).

Anche l'effetto placebo funziona (esistono ormai moltissimi studi che lo dimostrano) e nessuno sa perché.

Eppoi funzionano anche spesso i sogni e le premonizioni o l'intuito quando si sceglie o si respinge qualcuno.

Ma tutto questo il Pensiero-Corto lo chiama 'casualità'.

E' il sintomo di una pigrizia, di una impotenza del pensiero che - se si vuole restare umani - bisognerebbe fare di tutto per combattere, in tutti i campi.

Come scrive C.G. Jung: A chi può procedere malgrado gli enigmi, si apre una via. Sottomettiti agli enigmi e a ciò che è assolutamente incomprensibile. Ci sono ponti da capogiro, sospesi su abissi di perenne profondità. Ma tu segui gli enigmi.  (Liber Novus, Libro Rosso, Bollati Boringhieri, 2011, pag.308).

Fabrizio Falconi

in testa : Men Asleep on a Girder, 20 settembre 1932

23/03/09

Ma esiste un Piano Divino?





Ma esistono i piani divini ? Per tutta la vita ci dibattiamo in questa domanda: quello che mi succede dipende da quello che io faccio o decido, o dipende da quello che Qualcuno mi manda ?

Io, essendo cristiano, sono convinto che siano vere entrambe le cose (ma non so quanti cristiani oggi, quanti si definiscono tali, ne siano altrettanto convinti). Credo cioè che la nostra vita sia in perenne equilibrio tra le cose che noi decidiamo ogni momento della nostra giornata, e quello che non possiamo decidere, ma che 'ci capita', e che noi siamo chiamati costantemente a recepire, leggere, interpretare.
Sono cioè convinto che la volontà divina al nostro riguardo, non sia data una volta per tutte. Ma che la volontà divina nei nostri confronti sia come un padre nei confronti di un figlio. Noi possiamo decidere molto riguardo alla vita di nostro figlio: possiamo decidere come 'educarlo', e se sia giusto o no che esca di casa la sera, se ci piace o no la fidanzata che ci porterà a casa. Ma non possiamo decidere assolutamente TUTTO. Nostro figlio ci sfuggerà sempre, manterrà sempre una autonomia decisionale, ci sorprenderà sempre con i suoi atteggiamenti, le sue scelte, ecc... Un quid di incontrollabile, di imponderabile, di totalmente libero esisterà sempre in lui, come esisterà sempre la nostra libertà, autonomia, arbitrio, rispetto alla volontà divina. La volontà divina non è una tirannia. La volontà divina è come una 'cura' che si manifesta nei confronti di noi, figli. Ma noi possiamo curare quanto vogliamo un figlio, alla fine dovrà essere lui a dire 'sì' ai principi, all'educazione, alla cura che noi abbiamo riversato in lui. Ciò comporta una serie di importanti conseguenze:

1. Non possiamo lamentarci contro Dio perchè non manifesta la volontà che noi vogliamo da lui. Dio ci ha lasciati liberi di crescere. E nessuno potrà fare il cammino al posto nostro.

2. I segnali della 'cura' che Dio ci manda ci sono sempre, anche quando non li sentiamo, esattamente come quando un ragazzo non si accorge di quanto suo padre sia vicino a lui, di quanto voglia il suo bene, anche se non vuole o non può, o non riesce a sentirlo (e magari anche se suo padre non riesce a farglielo capire).

3. E' inutile affannarsi per capire cosa abbiano in mente i piani divini su di noi: i piani divini dipendono (anche) da noi, e senza di noi, cioè senza il nostro 'sì' alla cura, non può che prevalere l'istanza contraria a Dio (e cioè il male).

4. Esiste, però, nel piano della creazione, nell'imponderabile volontà divina, un quid (possiamo dire, banalizzando, il 20% ?) che noi non potremo mai comprendere, a proposito della vita: perchè un bimbo di 9 anni contrae la leucemia ? Perchè quella sera un mio amico è uscito di casa e un TIR l'ha investito ? Questo rimane un mistero, e in questa vita, nessuno potrà scioglierlo, e se questo appartiene o no alla volontà divina, lo scopriremo solo nell'aldilà. Ma per il resto, per quelli che sono gli avvenimenti consuetudinari della nostra vita - per le gioie, le speranze, le felicità, le ferite, le cadute, le mancanze, le rinascite - non dovremmo mai, credo, tirare in ballo troppo facilmente la 'volontà divina'.