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20/05/16

L'incredibile Cappella di San Severo a Napoli.



La Cappella di San Severo a Napoli
 di Fabrizio Falconi


Dieci anni della mia vita pur d’essere lo scultore del Cristo Velato !  La celebre esclamazione, frutto di una sconfinata ammirazione unita alla irrefrenabile invidia degli artisti, suole essere attribuita nientemeno che ad Antonio Canova quando nel 1780, in visita a Napoli, alla Cappella dei principi di Sansevero, si trovò di fronte l’incredibile ritratto scolpito del Cristo morto velato, adagiato su di un giaciglio, la testa reclinata su due cuscini, ai piedi gli strumenti del supplizio. 

Lo stupore di Canova, però, come anche il nostro oggi, era pienamente giustificato: come aveva fatto un giovane scultore di soli trentadue anni, Giuseppe Sanmartino,  ancora poco conosciuto, a realizzare un’opera di tale virtuosismo ? Il Cristo, sotto il velo minutamente realizzato in ogni piega, in ogni spessore, come forse mai prima di allora, sembrava davvero appena cristallizzato dopo il supplizio e la morte, ancora palpitante, come se la vita l’avesse appena lasciato. 

Com’era possibile un tale prodigio ? 

Se lo continuarono a chiedere in tanti, anche dopo la visita di Canova, e riuscirono anche a darsi una spiegazione: quella magia, quella straordinaria esibizione di bravura, non era tutta farina del sacco del giovane scultore, non era opera sua l’invenzione di una simile tecnica di lavorazione del marmo. No, c’era di mezzo qualcuno di molto più sapiente, nello studio e nell’utilizzo delle più segrete tecniche alchemiche.  Era stato lui, era stato sicuramente il principe Raimondo de Sangro, l’erudito colto studioso misantropo, che aveva commissionato l’opera dapprima al veneziano Antonio Corradini e poi alla morte di questo proprio al Sanmartino e che a quest’ultimo aveva insegnato le segreti arti di trasformazione dei materiali, per permettergli di realizzare un’opera unica al mondo.

A questo proposito c’è da dire che le leggende a proposito del Principe Raimondo sono fiorite e hanno prosperato con il passare dei decenni a Napoli, città dove lo scambio e la tradizione orale hanno potere come in pochi altri posti al mondo, e c’è da capirlo vista la fama che circondò in vita l’artefice della Cappella.

Raimondo proveniva, per nascita, dall’alta aristocrazia dei Grandi di Spagna. La sua famiglia vantava estesi possedimenti nelle Puglie, ed è proprio qui, nel feudo di Torremaggiore che nacque Raimondo, nel 1707. (1)

I suoi genitori erano Cecilia Gaetani dell’Aquila d’Aragona, membro di una delle casate patrizie più antiche d’Italia, e Antonio di Sarno, duca di Torremaggiore.

La madre Cecilia, morì pochi mesi dopo il parto.  Al suo ricordo, Raimondo rimase per sempre devoto, e nel suo Pantheon personale, che è la Cappella di cui ci stiamo occupando,  a lei dedicò la statua della Pudicizia velata, che fece realizzare da Antonio Corradini nel 1752, dove già si evidenziano i prodigi della lavorazione del velo che copre il corpo della donna, sostenuto da una lapide spezzata, a simboleggiare proprio la prematura scomparsa della madre. 
Il padre, Antonio di Sangro, era invece un nobile dal carattere vanesio e libertino. Troppo preso dalle sue tresche, pensò  bene di affidare il figlio, orfano di madre, alla cura dei nonni paterni.  Nel frattempo, invaghitosi di una giovane ragazza, ne fece uccidere il padre che si opponeva alla relazione. Il fattaccio avvenne in Puglia, nella città di Sansevero, dove i duchi avevano sempre goduto di fama e rispettabilità. Stavolta però il delitto fu talmente sfacciato da non poter essere perdonato: il sindaco di Sansevero impugnò un procedimento penale contro il principe Antonio, che fu costretto a fuggire e a rifugiarsi presso la Corte di Vienna, da dove cercò di difendersi dalle accuse grazie alla protezione dell'Imperatore. Quando il Tribunale pugliese, su pressione diplomatica, archiviò il caso, Antonio poté rientrare nei suoi feudi ma ancora non pago, decise di vendicarsi ordinando l’uccisione di quello che era stato il suo principale accusatore.  Una nuova fuga lo portò stavolta a Roma, dove però Antonio di Sangro trovò il modo di convertirsi, dopo essersi pentito dei suoi misfatti, prese i voti e si ritirò in convento.