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10/07/22

La lettera - intima - che Paul Mc Cartney scrisse a John Lennon e lesse nel 1994 per l'ingresso di John nella Rock'n Roll of Fame - Testo e video



Buona domenica!
Pubblico, a beneficio dei lettori di questo blog, il testo e il video (in fondo all'articolo) della bellissima lettera postuma scritta da Paul McCartney a John Lennon in occasione della cerimonia di introduzione nella Hall of Fame del 19 gennaio 1994, quando Lennon fu inserito nella leggendaria lista come artista solista.


Caro John,


Mi ricordo quando ci siamo incontrati per la prima volta, a Woolton, alla festa del paese. Era una bella giornata estiva, avevo camminato fin lì e ti ho visto sul palco. E tu stavi cantando "Come Go With Me", dai Vichinghi Dell, ma non sapevi le parole e così le inventavi. "Vieni con me al penitenziario." Non era nel testo.

Mi ricordo quando scrivevamo le nostre prime canzoni insieme. Andavamo a casa mia, a casa di mio padre, e fumavamo il Ty-Phoo the con la pipa di mio padre che conservava in un cassetto. Non ha fatto molto per noi, ma ci ha portato sulla strada.

Volevamo essere famosi.

Ricordo le visite alla casa di tua mamma. Julia era una donna molto alla mano, una donna molto bella. Aveva i capelli lunghi e rossi e suonava l'ukulele. Non avevo mai visto una donna che sapeva farlo. E mi ricordo di aver dovuto spiegarti gli accordi per la chitarra, perché avevi imparato a suonare gli accordi per l'ukulele.

E poi al tuo 21esimo compleanno hai ricevuto 100 sterline da uno dei tuoi parenti ricchi di Edimburgo, e quindi abbiamo deciso di andare in Spagna. Così abbiamo fatto l'autostop da Liverpool, fino a Parigi, e abbiamo deciso di fermarci lì, per una settimana. E alla fine ci siamo fatti fare il nostro taglio di capelli, da un tizio di nome Jurgen, che ha finito per essere il "taglio di capelli alla Beatle".

Ricordo quando ti presentai il mio amico George, il mio compagno di scuola, che tu facesti entrare nella band dopo che lui ebbe suonato "Raunchy" sull' autobus. Rimanesti colpito. E incontrammo Ringo che lavova tutta la stagione al campo Butlin - era un professionista esperto - ma la barba doveva sparire, e se la tagliò.

Più tardi abbiamo ottenuto di suonare ad un concerto al Cavern Club di Liverpool che era ufficialmente un club blues. Noi non sapevamo veramente tutti i numeri blues. Apprezzavamo molto il blues, ma non sapevamo i numeri del blues, così ci siamo presentati con un "Signore e signori, questo è un grande numero di Big Bill Broonzy chiamato" Wake Up Suzie Little " E il pubblico continuava a dire "Questo non è il blues, questo non è il blues. Questa canzone è pop." Ma abbiamo continuato a suonarla.

E poi siamo finiti in tour. Era un tizio chiamato Larry Parnes che ci ha ingaggiati per il nostro primo tour. Ricordo che cambiammo tutti i nostri nomi per quell'occasione. Cambiai il mio in Paul Ramon, George Harrison diventò Carl Harrison e, anche se la gente pensa che in realtà non cambiasti veramente il tuo nome, mi sembra di ricordare che diventasti Long John Silver per tutta la durata del tour.

Viaggiavamo su un furgoncino durante il tour, e una notte il parabrezza si ruppe. Eravamo in autostrada e stavamo tornando a Liverpool. Si congelava e quindi abbiamo dovuto metterci uno sopra l'altro nella parte posteriore del furgone creando un sorta di panino-Beatle. Abbiamo avuto modo di conoscerci. Ci siamo conosciuti così.

Siamo arrivati ​​ad Amburgo e abbiamo incontrato personaggi del calibro di Little Richard, Gene Vincent ... Mi ricordo di Little Richard quando ci invitò al suo hotel. Stava guardando l'anello di Ringo e disse: "Amo questo anello. Ho un anello simile. Potrei darti un anello simile." Così siamo andati tutti in albergo con lui. (Non abbiamo mai avuto un anello.)

Siamo tornati con Gene Vincent nella sua camera d'albergo una volta. Era andato tutto bene finchè non si avvicinò ad un cassetto del comodino e ne tirò fuori una pistola. Dicemmo: "Ehm, dobbiamo proprio andare, Gene, dobbiamo andare ..." Uscimmo di corsa!

E poi arrivarono gli Stati Uniti - New York City - dove ci siamo incontrati con Phil Spector, le Ronettes, Supremes, i nostri eroi, le nostre eroine. E poi a Los Angeles, incontrammo Elvis Presley per una grande serata. Abbiamo visto il ragazzo sul suo territorio nazionale.  Ragazzi! Era un eroe.

E poi, Ed Sullivan. Volevamo essere famosi, e lo eravamo davvero diventati. Voglio dire, immaginate di incontrare Mitzi Gaynor a Miami!

Poi, la registrazione ad Abbey Road. Ricordo ancora mentre suonavamo "Love Me Do." Tu ufficialmente cantavi "Love me do", ma perché suonavi l'armonica. Poi George Martin disse all'improvviso nel mezzo della sessione: " Può Paul cantare il verso " Love me do? " , il pezzo cruciale.

Mi ricordo mentre cantavo "Kansas City" - beh, non riuscivo a farlo, perché è difficile da cantare quella roba. Sai, urlare nella parte superiore della testa (?). Sei sceso dalla sala di controllo e mi ha portato da una parte e mi hai detto: "Ce la puoi fare, devi solo urlare, si può fare." Così, grazie. Grazie per questo. Sono riuscito a farlo.

Mi ricordo mentre scrivavamo "A Day in the Life" insieme, e l'occhiata d'intesa che ci siamo lanciati quando abbiamo scritto il verso "I'd love to torn you on". Sapevamo quello che stavamo facendo, sai. Uno sguardo furtivo.

Dopo di che c'era questa ragazza di nome Yoko. Yoko Ono. Lei si presentò a casa mia un giorno. Era il compleanno di John Cage e lei disse che voleva entrare in possesso di alcuni manoscritti di diversi autori per consegnarglieli, e ne voleva uno mio e tuo. Così ho detto: "Beh per me va bene, ma dovrai andare da John ".

E lei lo ha fatto ...

Dopo di che avevo impostato un paio di macchine di registrazione Brennell, che eravamo soliti usare, e tu sei rimasto sveglio tutta la notte e hai registrato "Two Virgins". Ma lo hai fatto da solo - non aveva niente a che fare con me.

E poi, poi c'erano le telefonate con te. La gioia per 
me, dopo tutta la merda di business che avevamo attraversato, era che stavamo tornando insieme e comunicavamo ancora una volta.
E la gioia quando mi dicesti che stavi a letto ora. E che stavi giocando con il tuo piccolo bambino, Sean. E 'stato meraviglioso per me, perché mi ha dato qualcosa a cui aggrapparmi.

Così ora, anni dopo, eccoci qui. Tutte queste persone. Qui si sono riuniti per ringraziarti per tutto quello che hai significato per tutti noi.

Questa lettera viene dal cuore, dal tuo amico Paul.

John Lennon, ce l'hai fatta. Stasera sei entrato nella Rock Hall 'n' Roll of Fame.

Dio ti benedica.

Paul 



Originale: 

"Dear John,

I remember when we first met, at Woolton, at the village fete. It was a beautiful summer day and I walked in there and saw you on stage. And you were singing “Come Go With Me,” by the Dell Vikings, But you didn’t know the words so you made them up. “Come go with me to the penitentiary.” It’s not in the lyrics.

I remember writing our first songs together. We used to go to my house, my Dad’s home, and we used to smoke Ty-Phoo tea with the pipe my dad kept in a drawer. It didn’t do much for us but it got us on the road.

We wanted to be famous.

I remember the visits to your mum’s house. Julia was a very handsome woman, very beautiful woman. She had long, red hair and she played a ukulele. I’d never seen a woman that could do that. And I remember to having to tell you the guitar chords because you used to play the ukulele chords.

And then on your 21st birthday you got 100 pounds off one of your rich relatives up in Edinburgh, so we decided we’d go to Spain. So we hitch-hiked out of Liverpool, got as far as Paris, and decided to stop there, for a week. And eventually got our haircut, by a fellow named Jurgen, and that ended up being the “Beatle haircut.”

I remember introducing you to my mate George, my schoolmate, and getting him into the band by playing “Raunchy” on the top deck of a bus. You were impressed. And we met Ringo who’d been working the whole season at Butlin’s camp - he was a seasoned professional - but the beard had to go, and it did.

Later on we got a gig at the Cavern Club in Liverpool which was officially a blues club. We didn’t really know any blues numbers. We loved the blues but we didn’t know any blues numbers, so we had announcements like “Ladies and gentlemen, this is a great Big Bill Broonzy number called “Wake Up Little Suzie.” And they kept passing up little notes - “This is not the blues, this is not the blues. This is pop.” But we kept going.

And then we ended up touring. It was a bloke called Larry Parnes who gave us our first tour. I remember we all changed names for that tour. I changed mine to Paul Ramon, George became Carl Harrison and, although people think you didn’t really change your name, I seem to remember you were Long John Silver for the duration of that tour. (Bang goes another myth.)

We’d been on a van touring later and we’d have the kind of night where the windsceen would break. We would be on the motorway going back up to Liverpool. It was freezing so we had to lie on top of each other in the back of the van creating a Beatle sandwich. We got to know each other. These were the ways we got to know each other.

We got to Hamburg and met the likes of Little Richard, Gene Vincent…I remember Little Richard inviting us back to his hotel. He was looking at Ringo’s ring and said, “I love that ring.” He said, “I’ve got a ring like that. I could give you a ring like that.” So we all went back to the hotel with him. (We never got a ring.)

We went back with Gene Vincent to his hotel room once. It was all going fine until he reached in his bedside drawer and pulled out a gun. We’ said “Er, we’ve got to go, Gene, we’ve got to go…” We got out quick!

And then came the USA — New York City — where we met up with Phil Spector, the Ronettes, Supremes, our heroes, our heroines. And then later in L.A., we met up with Elvis Presley for one great evening. We saw the boy on his home territory. He was the first person I ever saw with a remote control on a TV. Boy! He was a hero, man.

And then later, Ed Sullivan. We’d wanted to be famous, now we were getting really famous. I mean imagine meeting Mitzi Gaynor in Miami!

Later, after that, recording at Abbey Road. I still remember doing “Love Me Do.” You officially had the vocal “love me do” but because you played the harmonica, George Martin suddenly said in the middle is the session, “Will Paul sing the line “love me do?”, the crucial line. I can still hear it to this day - you would go “Whaaa whaa,” and I’d go “loove me doo-oo.” Nerves, man.

I remember doing the vocal to “Kansas City” — well I couldn’t quite get it, because it’s hard to do that stuff. You know, screaming out the top of your head. You came down from the control room and took me to one side and said “You can do it, you’ve just got to scream, you can do it.” So, thank you. Thank you for that. I did it.

I remember writing “A Day in the Life” with you, and the little look we gave each other when we wrote the line “I’d love to turn you on.” We kinda knew what we were doing, you know. A sneaky little look.

After that there was this girl called Yoko. Yoko Ono. She showed up at my house one day. It was John Cage’s birthday and she said she wanted to get hold of manuscripts of various composers to give to him, and she wanted one from me and you. So I said,” Well it’s ok by me. but you’ll have to go to John.”

And she did…

After that I set up a couple of Brennell recording machines we used to have and you stayed up all night and recorded “Two Virgins.” But you took the cover yourselves — nothing to do with me.

And then, after that there were the phone calls to you. The joy for me after all the business shit that we’d gone through was that we were actually getting back together and communicating once again. And the joy as you told me about how you were baking bread now. And how you were playing with your little baby, Sean. That was great for me because it gave me something to hold on to.

So now, years on, here we are. All these people. Here we are, assembled, to thank you for everything that you mean to all of us.

This letter comes with love, from your friend Paul.
John Lennon, you’ve made it. Tonight you are in the Rock ‘n’ Roll Hall of Fame.

God bless you.

Paul


12/08/21

Quando David Bowie si innamorò della voce di Nina Simone e trasformò "Wild is the Wind" in un capolavoro

 


La grande, impareggiabile Nina Simone dovette aspettare tre anni dall'uscita del suo album di debutto, Little Girl Blue nel 1958, per apparire per la prima volta in una classifica LP negli Stati Uniti  grazie al Live Nina At Newport. 

Dopo essere entrata in classifica con un altro disco dal vivo, Nina Simone In Concert del 1964, fu inserita due volte nella classifica dei migliori album pop di Billboard nello stesso anno seguente, il 1965, con I Put A Spell On You a giugno e con Pastel Blues meno di quattro mesi dopo. 

Il primo di questi album non è entrato nella classifica R&B, che Billboard ha introdotto all'inizio di quell'anno, ma il secondo è diventato una top ten, al n.8. 

Il suo picco al numero 139 sul lato pop sottolinea che il pubblico principale di Simone in quei giorni era nel mercato del rhythm and blues. 

Col senno di poi, il vero shock è notare che Simone non ha mai avuto un altro Top 10 LP nella classifica soul. 

 Tuttavia, altre quattro voci seguirono quel conto alla rovescia per un periodo di 14 mesi, a partire dal 10 settembre 1966, quando Wild Is The Wind oltrepassò la soglia delle migliori 25 posizioni salendo al numero 23. 

L'LP di 11 tracce di Simone, prodotto come al solito dal compositore e arrangiatore newyorkese Hal Mooney, conteneva una delle sue composizioni, il commento sociale tipicamente coraggioso "Four Women". 

Ma l'album prendeva il nome dalla composizione di Dimitri Tiomkin e Ned Washington, che era stata introdotta in una versione nominata all'Oscar da Johnny Mathis, nell'omonimo film del 1957: Wild is the Wind.

David Bowie era tra i tanti devoti della canzone, come ha dimostrato la sua cover contenuta nell'album Station To Station del 1976.

“La sua voce era usata principalmente come strumento” disse in proposito Bowie. 

Quando Simone ha suonato allo Square East di New York a marzo, ha aperto con "Wild Is The Wind", facendo una grande impressione sul suo pubblico, come ha osservò il recensore di Billboard Claude Hall. 

"Era una produzione martellante con un ritmo crescente e un finale crescente", ha scritto. “La sua esibizione al pianoforte è stata grandiosa; la sua voce è stata usata principalmente come strumento, aggiungendo all'effetto totale

Quella canzone inquietante divenne in seguito ben nota, in particolare al pubblico britannico, in una registrazione di successo di Elkie Brooks. Fu registrata anche da Jeff Buckley nel suo album di riferimento del 1994, Grace

 Wild Is The Wind ha raggiunto il n.12 nella classifica R&B e il n.110 nel mercato pop. Negli anni successivi sarebbero arrivati ​​consensi ben maggiori e più diffusi. Grazie anche alla versione live di Bowie per la BBC che resta ancora oggi una pietra miliare e che qui riproponiamo.

Fonte: Paul Sexton per Udiscovermusic.com


04/08/21

Mogol spiega L'Arcobaleno, la canzone "dettata" dall'aldilà da Lucio Battisti



Non tutti probabilmente conoscono la storia della canzone L'Arcobaleno, portata al successo nel 1999 da Adriano Celentano, scritta da Gianni Bella e Mogol.  La riporto qui - nel racconto diretto di Mogol, assai godibile, in un video - non tanto per il valore artistico della canzone (che resta comunque una bella canzone di musica leggera italiana), ma per la storia - piuttosto esoterica - che nasconde e che ha incuriosito migliaia di persone  e non soltanto i fan del compianto Lucio Battisti, genio della musica pop italiana, morto davvero troppo prematuramente, nel 1994 e come si sa era molto amico sia di Adriano Celentano che di Mogol, suo paroliere per interi decenni. 

Qui di seguito il video della canzone:




20/09/20

Quella volta che anche un poeta come Leonard Cohen si comportò ... in modo inelegante


Una volta anche un principe come Leonard Cohen si è comportato come un cafone.
La storia riguarda la nascita di una delle sue più celebri (e struggenti) canzoni: Chelsea Hotel #2
La canzone fu scritta nel 1974 e inserita nell'album New Skin for Old Ceremony.
Era dedicata a una ragazza incontrata qualche anno prima, che veniva rievocata subito molto crudamente nei 4 versi iniziali:
I remember you well in the Chelsea Hotel,
you were talking so brave and so sweet,
giving me head on the unmade bed,
while the limousines wait in the street.
ovvero:
Mi ricordo bene di te al Chelsea Hotel
Mi parlavi con dolcezza e coraggio
E me lo succhiavi sul letto disfatto
Mentre in strada la limousine aspettava.
Subito sorse nei fan la curiosità di conoscere il nome di questa "Chelsea Girl" . E Cohen, solitamente molto riservato sulla sua vita privata, li accontentò.
In Greatest Hits del 1976 scrive:
«L’ho scritta per una cantante americana che è morta qualche tempo fa. Anche lei viveva al Chelsea.»
Il mistero fu dunque subito svelato, e lo stesso Cohen lo confermò:
La ragazza era proprio la cantante americana Janis Joplin, che negli anni del successo - ma anche dell'inizio del suo calvario personale di eroina e alcol che la portò alla morte a soli 27 anni - viveva nella suite 411 del Chelsea Hotel (Dylan era alla 2011, Cohen spesso alla 424 ma, come ricorda Stanley Bard – storico gestore del Chelsea Hotel – non disdegnava altre camere).
Cohen raccontò, evidentemente romanzando l’episodio, che a notte tarda («verso le tre del mattino», avrebbe anche specificato) era solito incontrare Janis in ascensore. Una volta, mentre lei cercava Kris Kristofferson («che è ben più alto di me) e Leonard sperava di incontrare Brigitte Bardot o Lili Marlene, caddero l’uno nelle braccia dell’altro («Sono io Kris Kristofferson» «Pensavo fossi più alto! «Lo sono, ma sono stato male…») – d’altronde a quell’ora del mattino non c’era più nessuno in giro…
Quell’unica notte d’amore fu, come Cohen ha più volte ammesso, “il seme” di questa canzone.
Cohen successivamente si è più volte pentito di aver rivelato il nome della protagonista. Janis Joplin era morta, sola e abbandonata da tutti, in condizioni terribili la notte per una overdose di eroina il 4 ottobre 1970 in uno squallido alberghetto di Los Angeles, perché la sua fortuna, proprio a causa della dipendenza dall'eroina aveva intrapreso una fortissima parabola discendente.
In un’intervista rilasciata a Radio 1 della BBC Cohen disse: «In quella canzone ho fatto il nome di Janis Joplin. Non so quando ho iniziato, ma ho associato il suo nome alla canzone, e da allora me ne sono sempre pentito. E’ un’indiscrezione per la quale mi sento molto in colpa. E se ci fosse un modo per chiedere perdono a un fantasma, vorrei chiedere perdono per aver commesso quest’indiscrezione.»
In un’altra occasione, disse che sua madre Masha non avrebbe certo gradito questa sua esternazione poco elegante.
Insomma, anche ai poeti capita di scivolare, e di brutto.

25/03/20

Mina compie oggi 80 anni - Storia di un mito italiano



Anna Maria Mazzini, in arte Mina, domani compie oggi ottant'anni. 

Che sono un traguardo importante per chiunque ma che per lei, la Tigre di Cremona, assumono una valenza particolare tenuto conto di che cosa rappresenta per la musica italiana e internazionale. Le sue canzoni hanno fatto da colonna sonora alla storia patria, pietre sulle quali molti italiani hanno costruito le proprie fantasie, ritornelli che sono entrati nella memoria collettiva e personale. 

Un repertorio sconfinato e raffinato, 'Le mille bolle blu', anno di grazia 1961, 'E se domani', 'Grande grande grande', 'Non credere' sono alcuni titoli dei brani che l'hanno resa famosa e irraggiungibile. 

Louis Armstrong defini' Mina "la cantante bianca piu' grande del mondo", stregato da quella voce potente e cristallina, invasiva per il cuore, incontenibile per l'anima. 

Ad alimentare la leggenda di Mina molto ha contribuito il buen retiro a Lugano. 

Il 6 novembre 1989 e' diventata cittadina elvetica, con tanto di passaporto, anche se in realta' in Svizzera viveva dal 1966

Poi la scelta nel 1978 di scomparire dalla scena, cioe' dalle televisioni e dai concerti, da qualsiasi evento pubblico. 

Nessuna immagine, solo qualche scatto rubato con il teleobiettivo da paparazzi coraggiosi o immagini postate dai familiari. 

L'ultima della figlia Benedetta, qualche tempo fa: piu' che altro la nuca con i capelli rossi raccolti nel consueto chignon. 

Una donna unica, Mina. Per il trucco cosi' mercato da diventare iconico, per gli abiti che la rendono particolarmente sensuale tra paillettes e spacchi, per la gestualita' da femme fatale. 

La contrapposizione con Milva, la Pantera di Goro, le scivola sulla pelle. E' oltre, Mina. Oltre tutto e tutti. Oltre il Festival di Sanremo, oltre Canzonissima, oltre Studio Uno. Oltre e basta

Anche la vita sentimentale della signora Anna Maria Mazzini e' stata particolare. 

Dalla relazione con Corrado Pani, nel 1963 e' nato il primogenito Massimiliano, dal matrimonio con il giornalista Virgilio Crocco e' nata Benedetta, nel 1971. 

Ultimo colpo di fulmine con Eugenio Quaini, con il quale si e' sposata nel 2006. 

Amori intensi e fugaci, tutti avvolti in quell'alone di mistero che oggi chiameremmo privacy estrema.

 Gli ottant'anni di Mina sono un punto ma nessuno si sogna di andare a capo. 

Il suo ultimo lavoro, il disco con Ivano Fossati, ha riscosso il solito, enorme successo. Si chiama 'Mina-Fossati'. Undici brani, il primo si intitola 'L'infinto di stelle': forse non e' un caso. E, comunque, auguri.

01/02/19

Una rara intervista a Pasquale Panella il poeta autore dei testi degli ultimi 5 album in studio di Lucio Battisti.






A beneficio degli appassionati e non pubblico in questo blog una delle rarissime (e più complete) interviste realizzate a Pasquale Panella, poeta romano, autore dei testi degli ultimi 5 album in studio di Lucio Battisti,  da Don Giovanni a Hegel che conclusero la sua esperienza artistica e costituiscono ancora oggi un corpus eccentrico e affascinante. 

LE CANZONI SONO SOLO VAPORI
(primavera 2000)
Il vate aveva accettato di incontrarmi, ma ho preferito telefonargli. Sapevo già che è al telefono che dà il suo meglio. Leggendario, diluviante, Panella vive con il telefono appiccicato all’orecchio, e soprattutto alla bocca. Forse perché (tranne una recente acquisizione) non ha mai avuto uno stereo, e il telefono è un buon modo per ascoltare qualcosa, soprattutto se stesso. Forse perché come Elias Canetti ha subìto (o prodotto) l’autodafé dell’immensa biblioteca della sua cultura, optando per la comunicazione orale. Forse perché è un autore-attore senza spettacoli, se non quelli che telefona tutti i giorni alle sue incantate vittime. Perché le parole sono milioni e lui ha bisogno di pronunciarle tutte, articolandole nella sintassi del paradosso e del nonsense. Forse anche perché disprezza i cantanti (cioè gli autori), e preferisce al limite i giornalisti, purché le sciocchezze che scrivono possa firmarle un genio, per ribaltarne il senso. Lui stesso, paroliere per caso, firma quello che gli fuoriesce dalla macchina da scrivere, come in un incubo del suo amato Burroughs. Non parla mai di quello che fa, e nemmeno di quel che si fa, o si fa fare. Parla del linguaggio, provando sempre a soffocarlo nelle sue stesse spire.

Parlare con lui di Lucio Battisti, come avrei voluto fare, è stato molto illuminante. Perché Panella di Battisti non racconta quasi niente, ma quello che non dice è molto più di racconto. E’ il mistero della medietà, caratteristica intrinseca delle canzoni, ma anche delle persone.

Ho dimenticato, con lui, di provare a pronunciare la parola genio. Ma, proprio per questo, dalla nostra conversazione tale parola brilla di luce intensa per la sua assenza. In fondo il genio è un vapore della medietà, la capacità di trovare quello che neppure si cerca, come diceva Picasso. Di trovare ovvie le cose meno ovvie e così, genialmente, scoprirle. O meglio ancora (si fa prima) crearle ex novo. Dal vapore, dal nulla.
La chiamo per parlare con lei degli autori di canzoni.
Non ci sono autori, ci sono solo cantanti. Quelli che si dicono autori sono autori solo di quello che ascoltano: dunque sono cantanti. I cantanti sono sempre qualcosa di meno.
Eppure lei esordì come autore di testi con Enzo Carella, che cantò Barbara, vincendo un secondo posto al Festival di Sanremo del 1979.
I cantanti sono parecchi. Enzo Carella è il meno parecchio di tutti, ovviamente perché è il primo, e come in tutte le cose la prima è sempre quella buona. Con Carella si è fatto tutto. Proprio ieri ho chiesto di darmi quelle vecchie registrazioni, che non ho mai avuto, perché non avevo uno stereo, solo oggi ho un lettore Cd. Sto chiudendo un periodo, un periodo blu. Non come Picasso, imitativamente, ma chiudo il mio periodo blu per entrare in quello rosa, il colore della cattiveria e della crudeltà. Non è vero che è un colore tenero, non è il colore dell’incarnato. Basta prendere un rosa e metterlo sull’ovale di un viso, e si vedrà che non è quello il colore della carne.
Ma lei ascolta canzoni?
Sento tanti provini, ma i cantanti, così come le persone, son tutti un po’ uguali.
Anche Lucio Battisti era un cantante?
Credo che così lo si privi della sua definizione assolutamente guadagnata nel tempo, del suo essere di meno ma non solo.
Quel “non solo” è un di più?
No, i cantanti sono sempre un di meno, perché son baciati dagli angeli. Ci sono molti parrucchieri che si chiamano Angelo.
Come iniziò e come finì tra lei e Battisti?
Per quel che mi riguarda inizia come finisce, cioè forzatamente. Parliamoci chiaro: parlando di canzoni io non sono affatto adeguato. Per me scrivere le canzoni è come fare le rapine. C’è un mondo abbastanza imbecille da farsi uscire i soldi dalle tasche, senza nemmeno dover andar lì a mano armata. Io che nella vita non ho fatto altro che pensare a scrivere, anzi non ho fatto altro che non pensare a scrivere, so che basta appoggiare la mano sui tasti della macchina da scrivere, come si fa su quelli di un pianoforte, e fai uscire quattro parole. Ma se ciò non è preceduto da una continua elaborazione della scrittura precedente, non esiste scrivere. A me della canzone non me ne è mai importato nulla. Mi sono avvicinato alla canzone giusto per ascoltare quattro dischi, quelli che facevo, magari nemmeno a casa ma in in studio di registrazione, mentre si elaborava. Oggi sono molto annoiato, perfino dall’ascolto di me stesso. Già a quel tempo, per me, scrivere era scrivere al di là di una destinazione, era scrivere in prosa. Capitavano queste occasioni abbastanza lucrose, e quindi lo facevo. Pur senza competenza di quello che la produzione musicale italiana è o non è, mi è sempre parsa un’attività abbastanza cretina. Mi vergognavo un pochino che il mio nome apparisse, usavo pseudonimi, poi sfuggiva perché il mondo della musica leggera è molto ciarliero. Ma è stato per me un mondo anche molto affabile, gentile, affettuoso.
Anche i cantanti sono dunque un po’ angeli, come i parrucchieri.
Dicendo “i cantanti” libero queste creature di tutte le scaglie imprenditoriali che le ricoprono. Quando diventano imprenditori sono invece abbastanza ributtanti. Ma è bello vedere un cantante che, nell’esercizio delle sue funzioni, risolve dei passaggi, trova il suo momento di voce.
Mentre registrava a Londra i dischi delle canzoni scritte con lei, spesso Battisti le telefonava. Cosa le chiedeva?
Più che chiedere mi faceva ascoltare delle cose.
Le chiedeva modifiche ai suoi testi?
No, a volte capitava che gli proponessi dei tagli. Io preferivo abbondare, però lo avvertivo: fa’ ‘na cosa, vedi tu quello che più ti occorre. A volte capitava non che fossero tagliati di botto, ma che alcune parti fossero restituite frammentariamente.
Con Mogol, Battisti preferiva modificare la propria melodia piuttosto che intervenire sulla lunghezza o sulla metrica dei versi. Faceva così anche con i suoi testi?
Come no, sempre. Salvo in casi rari, quando io stesso gli proponevo delle varianti, delle frammentazioni. Battisti lavorava moltissimo sulla melodia.
Si dice che lei e Battisti vi sentivate al telefono ogni giorno.
Anche più di una volta al giorno.
E cosa vi dicevate?
Di tutto, qualche volta era anche finalizzato alle canzoni. Poi a volte anche le chiacchiere potevano essere utili.
Sembravate avere in comune una vocazione scientifica. Lucio Battisti sapeva riparare tutti gli oggetti meccanici, lei li metteva in versi.
Scrivere significa avere tutte le vocazioni, e dibattersi perfino nella sconoscenza.
Ma perché ci sono tutte quelle macchine, e tutte quelle macchinazioni, nei suoi testi scritti per Battisti?
Perché se fossi vissuto in altri tempi avrei parlato di cose occorrenti nel passato. La canzone in fondo è molto legata a tutto questo che si muove, vive un po’ di questa sua prima ambizione che è il movimento. Ecco perché nelle canzoni si vola sempre, il primo referente dinamico e primordiale è quello, e nella canzone generalmente è teorico. Come in Freud, è l’anelito del mancante. Se uno parla del volo o è perché vive tutti i giorni su un aereo, o è perché si sta frustrando. Non è che io perda tutta la notte per dire solo “io volo”, come scrissi in un pezzo. Perché più astutamente osservavo la frustrazione che a loro veniva, cantanti e autori, mettendo il volo dovunque. La canzone è ingenua, una da poco arrivata, una parvenue. Anche questo sposalizio di interessi tra la parola e la musica… parola e musica non hanno niente a che vedere tra di loro, la canzone esiste per puro amore dell’orrido. Le più sopportabili sono le canzoni di tipo comportamentale, dove la musica è solo un’enfatizzazione dei toni espressivi. Quelle dove ad una splendida musica corrisponde una splendida falsità testuale sono le migliori, le canzoni stupide-belle, dove l’interesse dell’ascoltatore è lo stesso per il quale si sposarono parole e musica, perché per accoppiare insieme le due cose ce ne vuole, di sforzo. Oggi è un interesse potentissimamente commerciale, oggi per unire musica e parole a volte si devono mettere assieme due colossi industriali. La prima cosa che si chiede è se uno ci ha le edizioni. Poi la canzone cerca sempre di creare la castità, sembra sempre che uno produca la canzone di nuovo, la novia, la sposa, la nuova.
Dopo la vostra prima collaborazione, quella di Don Giovanni, lei non scrisse più testi sulle melodie di Battisti, ma fu lui a musicare i suoi testi. Perché invertiste il metodo?
Invertire il metodo è stata una mia richiesta, perché in Don Giovanni la presunzione di canzone era ancora forte. A me piaceva stabilire un diritto di prima notte, che una canzone uscisse già fatta, che uno se la fosse già fatta, in tutti i sensi, o signora, coi suoi difetti. Tutti quelli che ascoltano canzoni sono puritani, mormoni, una cosa tremenda. La canzone è piena di piccoli ma ferrei codici, molto morali. La canzone è il tentativo di darsi una morale. Altri si danno una calmata, questi una morale. Perciò la canzone esiste sempre, e tutti i governi in fondo la tollerano, ed essa ha con loro traffici illeciti. Una volta degli amici facevano una festa con le canzoni di Dylan, era venti o trent’anni fa. Chiedo: ma che dice questo? Andai a guardare, e mi sembrò un chierichetto. Noi italiani siamo abbastanza svezzati, gente come napoletani e romani, gente che circonda il Vaticano: quelli di Dylan mi sembrarono testi di uno scadente spiritualismo. Nessuno era d’accordo, tutti credevano che fossero gran cose. Solo dopo trent’anni, andandolo a rileggere, se ne rendono conto, forse perché lo hanno visto piegarsi davanti al papa. Sembravano canzoni di grande assalto, ma non era vero: canzoni mormoni, piegate, molto moraleggianti.
Ma cosa vi dicevate al telefono, lei e Battisti? Parlavate del vostro lavoro, o di cos’altro?
Allora parlavo un po’ così come adesso: per me parlare significa monologare.
Ma vi vedevate?
A volte ci trovavamo insieme, e c’era anche allora quella… Voglio dire, quando la stampa lamentava la sua sparizione, era lei che la creava. La sparizione di Battisti era una comoda notizia da scrivere seduti. Ma in fondo io apprezzo il giornalismo. E’ vero, non siamo più ai tempi d’oro, non dico di Truman Capote, ma del giornalismo iniziale, quello mosso, presente, di ricerca, nel senso proprio del cercare. Tutti sono notizia, sotto una certa specie. Ad esempio la bellezza, o lo scatenamento del desiderio da parte di un personaggio molto bello, è notizia; finché non arriverà alla decadenza, quando la notizia sarà quella, la notizia della decadenza.
Lei tace le relazioni, non parla mai di sentimenti. Lei lo ha amato, quel Battisti? Ricordo la violenza con cui scrisse a Boncompagni dopo una sua battuta infelice in televisione, all’indomani della scomparsa del musicista.
Io me la son presa perché ci aveva messo dentro anche me, me fisicamente. I testi sono come i quarti di bue, se uno non vuole non li produce. A me risultano più approssimative e più antipatiche le critiche benevole, perché non dicono niente di vero. Poiché l’astio, il livore, è molto più lucido. Ricordo certe scivolate di Luzzato Fegiz o di Zampa, che mi attaccavano: quando mi incontravano mostravano un’opinione di me molto più alta. Quello che dite è tutto vero, mancava solo la firma, perché non ci stava scritto Roland Barthes. Se si scrive “Panella persegue un progetto di insensatezza”, ed è firmato Roland Barthes anziché Fegiz, è questo che fa la differenza. Detto da Fegiz vorrebbe essere un astioso insulso… volevo dire insulto (ma detto da me va benissimo). Quando i benefattori sparano qualche complimento, chi se ne importa.
Battisti rivelò un giorno a un amico una specie di metodo per valutare quello che lei scriveva: “I testi di Panella, se non li capisco vuol dire che sono giusti”.
Qualche testo sempre mi rimaneva fuori… Sì, vabbè, ma era quello che chiedevo io, avrebbe fatto una brutta figura a dire “ho capito tutto”, peggio che dire “io sono ignorante”. Si sbaglia a mettere queste faccende sul piano della comprensione delle cose. Si dovrebbe piuttosto rimanere incantati di fronte a questo oggetto dal quale esce la musica. Non capiscono nemmeno perché un disco messo in un posto suona, poi vogliono capire cos’è la musica? Mi sembra troppo. Tra un uomo e una donna, non sia mai che uno debba dire all’altro: “fàmmiti sempre capire”. Mi sembra molto offensivo. E poi si parla di sentimento. Riconoscano prima che il sentimento è una falsa sovrastruttura, e allora poi parliamo di capire.
Quando lei e Battisti facevate assieme una canzone, cercavate la stessa cosa?
No, non credo. Io non so neppure cosa cercassi. Non è nemmeno che non cercassi niente. Mi trovavo quelle frasi davanti, oggi sarebbero probabilmente diverse. Ma non per ragioni strutturali o formali, perché le canzoni che vengono un giorno non vengono un altro.
Per un Battisti che non scriveva più secondo la logica della strofa e del ritornello, le melodie erano diventate un’operazione di dispendio. Come la parola per lei. Un’altra affinità fra voi due?
Io non scrivevo ritornelli, ma un percorso obbligato, nel quale c’erano però dei moduli tornanti. Ma quelle canzoni nell’insieme sono dei ritornelli.
Ma sono anche come i quarti di bue, come lei stesso diceva prima. Il pubblico compra le canzoni per mangiarle.
No, il pubblico mangia tutto, è quasi una discarica, riceve i testi di tutto. Se uno pensa a quello che è l’elaborazione della canzone… Prendiamo un giovane autore o cantante, giovane per offenderlo. Vive la sua vita giovanile, tutta fatta di speranze, pulsioni compositive, aspettative, e la sua dotazione è circa venticinque canzoni. Sono le canzoni migliori della sua vita. A un certo punto c’è questo ragazzo che s’incontra con altri ragazzi, produttori, discografici, e da questo gran corpo bovino o suino ricavano qualcosa come una cistifellea, nella quale gli antichi credevano ci fosse l’anima. Una cosa assottigliata, strofa-strofa-inciso, la cistifellea: qualcosa che normalmente si butta. E la buttano, infatti, in pasto al pubblico. Non mi pare che il pubblico riceva il meglio. Di tutto il corpo, bovino o suino che sia, di una vita rivolta alla canzone, ricevono qualcosa che veramente è stato sterilizzato da quel corpo. Lo ricevono nei termini di una “operazione” discografica, si dice così, no? Questo tampone pieno d’alcol snaturato. Quello che arriva. La canzone è qualcosa di molto levigato, prosciugato, tagliato e ritagliato, una cosina così. Ma nego che ci sia un’affinità tra musica e testi, che ci sia stata o che ci sarà. E’ un matrimonio di interessi. La parola non ha niente da condividere con la musica, né la musica con le parole. Esiste un luogo comodo, che è la canzone, con cui oggi la gente ritiene di aver assolto il compito del consumo culturale. Una cosa composta, molto calata nel ruolo. Si fanno seminari, ne parlano sul serio: questa è la più grande offesa portata alla canzone. La canzone non va discussa, perché è fuori da ogni discussione. Sennò perde la sua caratteristica di figlia degenere di un matrimonio d’interesse, ma bella, leggera, idiota. Perde quello che veramente dovrebbe essere: inafferrabile. Non conoscendo e non amando la canzone, le ho restituito quello che dovrebbe essere: l’inafferrabilità. Se chiediamo a un amante della canzone del passato cosa vuol dire “Vola, colomba bianca vola, diglielo tu che tornerà”, lui non lo sa. Con la canzone si entra in scemenza, uno esce dalla priorità del tutto. Entra in scemenza, nell’avulsione dal tutto. Ma da anni vien fuori che bisogna essere problematici, che bisogna farne un problema.
Stiamo scrivendo l’ennesimo libro su Battisti, nell’eterna speranza che sia quello vero. Lei trova sbagliato che in un libro si racconti la vita di una persona?
Sì. La vita di una persona coincide con la vita di chi l’ascolta, quella persona lì. Poiché esiste uno standard esistenziale: anche se gli ascoltatori di canzoni sono tanti, mediamente parlando, la canzone è la soddisfazione della zona mediana: le apprensioni, le aspettative, i medi desideri e le medie voluttà del medio. E’ tutto medio. Non esiste una canzone di tipo tirannico, o criminale. E’ tutto mezzo e mezzo. Un po’ autoritario, ma un po’. Un po’ vittima, un po’ no. Se uno dovesse ricostruire i rapporti umani dalle canzoni, non ne verrebbe fuori quasi nulla. E’ un mondo molle, perché è un mondo medio. E’ un mondo di quella vita lì, che non prende posizione né per un verso né per un altro. Non dà colpi né al cerchio né alla botte: accenna. Alla canzone non è chiesto di dire, ma solo di apparire. Ecco perché L’apparenza. E’ un po’ un miracolo, ne ha tutte le caratteristiche, salvo che non la fa troppo lunga, perché dura tre minuti, se ne capisce l’origine, perché c’è di mezzo un oggetto. A differenza di Fatima può vendere anche qualche milione di copie nel mondo, ma almeno non è così invasivamente ecclesiale. La sua capacità invasiva è epidemica, ma sempre meno di quell’altra. Di vantaggioso ha che dura meno: la si può riascoltare, ma la sua durata resta sempre quella. Da ragazzi si comprava un 45 giri, e il primo giorno lo si metteva cento volte di seguito. Ma non è che facendo così moltiplicassero i tempi: non riuscivano a capirne il miracolo, per cui lo ripetevano. La canzone è amabile perché finisce, presto.
E la vita di chi scrive canzoni?
Della vita, che dire? Sono vite normali. Uno si sveglia dopo essere andato a letto il giorno prima, fa colazione. E vive come chiunque. Io poi son poco attendibile. Poco mi ci trovo nei panni di chi vive di ricordi, io so parlare solo di me, che vuole che dica di un altro? Si può dire di Alfred Jarry, che col revolver sparava ai bagarozzi, e li stecchiva pure. Ma son passati più di cento anni. Ho letto di Graham Greene che era uno scrittore mediocre perché parlava di persone. Obiettivamente è uno scrittore medio. Un bravo scrittore, scrittore-scrittore, di quelli veri, scrittore di professione, non certamente di vocazione. Si interessava delle persone perché di meglio non sapeva fare. Interessarsi alle vite è una noia, perché le vite sono noiose.
Ma insomma, questo Lucio Battisti. Nessun dettaglio da ricordare?
Sono io che non mi trovo nelle parti di uno che ricorda, non sono un memorialista, affettivamente parlando.
Un rapporto, dei sentimenti?
Io di natura non sono portato molto alla condivisione di nulla. Penso a me, penso di me, non vedo perché debba penare trapassandomi negli altri. Il fatto di mettere insieme queste due cose, la musica e le parole, questa compenetrazione in realtà è perfino un superamento, una sospensione dell’amicizia. Non vedo perché uno debba impegnarsi, dopo aver fatto qualcosa del genere, che è perfino un po’ immorale, come qualsiasi fondazione di una moralità: l’immoralità dell’estetica è nel farle, le cose, non nell’averle fatte. Partecipare di questa immoralità, come commettere una rapina insieme, è più dell’amicizia. Mi viene in mente Genet, che non aveva amici, ma che perciò aveva ancora qualcosa di più potente, con i suoi complici. Dell’amicizia non me ne importa nulla, anzi la detesto un pochino. Non la capisco.
Si è mai mosso di casa per incontrare Battisti?
Ho frequentato solo la sua casa romana, si figuri se io mi muovo, certo non per andare a parlare di canzoni. Si parla meglio al telefono.
Anche per comporre testi di canzoni?
Ci sono stati vari modi. All’inizio, dettandoglieli. Poi i fax, poi ancora la prima Internet.

Battisti le ha mai fatto proposte di modifica, sui testi? Voglio dire: non sulle metriche, ma sui contenuti?

Il problema sarebbe stato capire quali erano, i contenuti…
Perché? Vuol dire che Battisti non li capiva?
In fondo questa cosa fu risolta prestissimo. La cosa che dissi subito, e che subito lo persuase… Diciamo che probabilmente io gliene ho parlato come ne ho parlato con lei, sulla canzone come apparizione, sulla sua volatilità, la peste da una parte e il miracolo dall’altro.
Dunque lui accettò subito questa sua posizione?
Immediatamente.
Lei è elusivo, nei suoi testi come nel racconto della vita.
Ogni vita a raccontarla è assolutamente insulsa, salvo che tu non lo faccia da giornalista, detto nel senso bello. I fatti accaduti esistono solo in alcune pagine di questi giornalisti qui, parlo di gente come Hemingway. Ma uno notevole sotto il profilo esistenziale è Enzo Carella, perché non avendo vissuto imprenditorialmente la vita che fa, vive una vita senza risorse, che io ricordo e tengo presente come tutti gli altri. Ho un certo affetto per il giornalismo, specialmente per il cattivo giornalismo, che è ingenuo, perché è avventizio. Come quando cominciarono a dire: è la loro fine, non vendono più, eccetera. Per qualche motivo i discografici, vuoi perché macinano musica, vuoi perché sono commercialmente aggiornati, le garantisco che afferrano le cose molto più dei giornalisti avventizi. Capirono subito che dietro quella cosa c’era un evento commerciale, come si dice nel loro lessico. E quando leggevano quelle cose, le previsioni giornalistiche su quel cantante che consideravano finito, i discografici ridevano. L’evento è stato talmente produttivo dal punto di vista promozionale – tanto che noi oggi ne stiamo parlando – perché le vendite superarono le previsioni e ci fu pure un richiamo di vendita del suo passato, di tipo vendicativo. Senza che l’avessi fatto volontariamente, io partecipai di un’ottima operazione commerciale. Ecco perché andava bene tutto. L’elemento di novità attira le attenzioni, e la novità erano quelle parole lì.
Perché finì?
Perché mi stancai. Mi pareva che cinque dischi fossero già troppi. Si stava diventando troppo produttivi e continui. Io non amo molto la continuità. Se mi dessero un miliardo per posare nudo lo accetterei, perché mi metterebbe a rischio e non me ne importerebbe nulla. Perfino Fegiz cominciava a parlarne bene, si diventava consueti. Alcune cose io non le ho neanche firmate, perché non volevo diventare un miserabile mito della musica leggera, come dire: non c’è altro, ti devi accontentare. Diventare qualcosa in mancanza di tutto.
Mai pentito?
Assolutamente no. Anzi, in generale mi sto allontanando sempre più dalla canzone. Ne faccio sempre meno, e cerco di farle nella maniera più stupida possibile. Ma la cosa non era riconducibile a un episodio.
Lui come la prese?
Credo non bene. Ogni disco finito io dicevo vabbè, abbiamo fatto, ci possiamo dire appagati. Ma lui parlava subito del prossimo. Da parte mia era sempre più evidente questo blando scostamento dalla canzone. Da quella in particolare, perché stava diventando consueta, stava prendendo piede, come si dice. La mia scrittura per canzone è scrittura applicata alla canzone. Per me la canzone non è il riferimento assoluto, ma nemmeno relativo. Di quel passo avremmo fatto un disco ogni due anni per sempre. Era tutto così ripetitivo. Due anni e tutto si ripeteva, solite solfe, solito balletto, tutte finzioni da parte di tutti, il pubblico finto. Per me quelle cose, a voler esagerare, avrebbero dovuto vendere quindicimila copie. Il discorso più interessante è proprio questo: l’incidenza di queste cose nelle faccende discografiche, negli interessi del pubblico. La vita è bella quando te l’immagini, perché se sei bravo riesci a veder quello che non puoi vedere. Cosa vuole che m’importi mettere a nudo una vita normale? Non importa nemmeno a quello che l’ha vissuta. Le vite taciute è meglio che lo restino. Le vite di cui non si conoscono grandi espressioni, grandi barbagli, grandi abbacinamenti e grandi scivolate, grandi uppercut e grandi record (della vita, non della musica leggera, che qualsiasi imbecille è in grado di apportare) vanno taciute, perché quelle grandi espressioni non furono espresse proprio per non essere raccontate. Chi si esprime in maniera notevole vuole essere raccontato in maniera notevole. Vite così sono esistite, vite che volevano essere raccontate. Gente che, sapendo di vivere in pubblio, viveva in pubblico godendo, e pagandolo. Questo li pone di fronte alla violenta scelta di essere quasi per sempre. Ci fanno pure i film, su Ciaikovskij, su Oscar Wilde: gente talmente densa di racconto che questo racconto gli usciva dai pori. L’altra gente ascolta le canzoni, e ascoltare le canzoni significa farle. Non esiste un autore di canzoni che non sia stato pubbblico della canzone. Chi fa canzoni è un ascoltatore, e lo sarà per sempre. Io non ho mai ascoltato canzoni, ho scritto in assenza di suono, come Beethoven. Ecco perché ho scritto prima di ascoltare la canzone, perché io non la sento. O si vivono vite notevoli, o si ascoltano (si fanno) le canzoni.
Io sono elusivo perché son sordo.
E detesta gli aneddoti.
Alcuni fatterelli è bene che non si conoscano mai, perché se la normalità vuol esser taciuta, è bene che sia taciuta. Molte vite possono essere ricostruite sulle opere. E’ tutto lì. Esiste un’esposizione sfrontata, impavida di sé, che può essere ricostruita come vita.
Mi vien da pensare che quella pretesa di Battisti, che diceva di non essere più interessato a comunicare, forse gliel’aveva suggerita lei.
La canzone non è necessaria, per cui nessuno può dire di trovarsi scomodo in quei panni. Non è sartoriale. La più concreta analogia è quella con il miracolo: pura visione, puro nulla, però colorato. Non puoi infilare le braccia in una nuvola. Durano forse uguale, la canzone e il miracolo: per un miracolo un tempo di quattro minuti è sufficiente. La noia, l’usura, la sopravvivenza di una chiesa su quel miracolo sono molto più durature. La canzone è più astenuta: certo, sono un miracolo, ma non stiamo a far tante chiacchiere, tanto poi ne apparirà un altro. Son miracoli stagionali.
E poi?
Le canzoni sono vapori. La canzone dice: io sono un po’ falsa. Ma il fatto che lo dica è grande. Sono un po’ falsa, cioè sono un miracolo: un abbaglio nel quale puoi vedere delle cose, puoi vedere l’amore, cioè un abbandono cantabile, una cosa falsa. Ad esempio, io ho giocato a lungo come centravanti nella Roma, allenato da Zeman.
Davvero?