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18/03/15

Su "Fargo". La banalità del male è più forte del male puro.




C'è genialità nella serie televisiva Fargo, del resto dominatrice dei premi della stagione. 

Quanto ci sia dei Coen è facile arguire. Perché l'opera si riconnette direttamente alla filmografia dei fratelli di St. Louis Park e in particolare al loro film omonimo, anche se con parecchie differenze. 

La serie televisiva - in dieci puntate - è una epopea sul male. Lester Nygaard (il bravissimo Martin Freeman) è il prototipo dell'uomo medio: middle class, assicuratore, mediamente sposato senza figli, mediamente infelice. Non intelligente, ma furbo. Deciso - con la forza della disperazione - a riscattare la frustrazione che ha fatto di lui un uomo eternamente vessato. 

Il corto circuito che manda in pezzi la vita di Lester è la capacità di uccidere a sangue freddo (e con violenza inaudita, come capita molto spesso leggendo le cronache dei giornali) l'insopportabile moglie (che lo vessa continuamente e lo giudica), durante un banale litigio.

Da lì comincia una furibonda lotta di Lester contro se stesso e contro tutto il mondo.  Di guaio in guaio entra in rotta di collisione con lo spietato killer Lorne Malvo (Billy Bob Thornton), epigono del male assoluto, uomo che ha scelto convintamente il male come filosofia di vita: l'esistenza è una giungla, le regole non esistono, esiste solo la legge del più forte.  Sopravvive chi è più forte.

Lester se la cava molto bene, e a lungo, per confondere - complice anche una polizia sgangherata, con l'eccezione della poliziotta Molly (Allison Tolman) - le tracce dei suoi misfatti.  Con incredibile nonchalance viola ogni regola morale, tradisce il fratello, lo fa incarcerare, passa sopra ogni affetto e ogni norma primaria di comportamento.

Lo scopo è sopravvivere. Lo scopo è rovesciare la frustrazione e trasformarla in sopraffazione. A scapito dunque di altri frustrati.  Lester  è un ambizioso.  Rappresenta il male banale di Harendtiana memoria, quello che sembra debole e goffo, normale  e prudente e invece è il più devastante. 

La capacità del plot è nell'indurre lo spettatore a schierarsi senza alcuna esitazione dalla parte del malvagio (ma gentleman) Lorne. A indurlo a sperare che sia il male puro a spazzare via quel microbo di Lester e a dargli la punizione che merita, in virtù del patto faustiano che i due hanno stipulato (è stato Lester a chiedere l'aiuto di Lorne, nella prima puntata, perché lo tiri fuori dal casino che ha combinato).

Ma - e qui c'è una avvertenza di spoiler (chi non ha ancora visto la fine, non vada avanti) - non sarà così.  Il sottovalutato Lester - il male banale - è molto più duro a morire e più pervicace di chi è male per istinto, per purezza costitutiva. 

Ad affondare Lester (in tutti i sensi) sarà solo il destino. Il ghiaccio che si sbriciola sotto i suoi piedi e lo inghiotte è una efficace metafora del fatto che prima o poi tutti i giocolieri finiscono per cadere vittime della propria ambizione (il vero male in senso lato).   Non a caso Molly non è ambiziosa. Non è nemmeno così interessata alla carriera. Lo è nel modo giusto, sano. E' una persona che sa stare al suo posto. E' questo, forse che le permette di vedere - l'unica che riesce a vedere - quello che gli altri non vedono. 

In questo senso Fargo è una leggenda morale nera (il tocco leggiadro della narrazione la rende altamente spettacolare) che parla al cuore di ognuno di noi, costringendo a farsi continue domande: cosa si salva ? cosa resta ? perché si è così prigionieri ? perché non si sa apprezzare nulla (dei doni) dell'esistenza ? perché il nostro sistema è così disincarnato ? perché siamo sempre più soli ? perché non riusciamo più a comunicare ? perché non troviamo conforto se non nella nostra dissoluzione ?

Fabrizio Falconi 

19/11/14

"Non aver capito la vita."





Mi ha molto colpito leggere la risposta data dal grande cartoonist Mordillo (l'inventore di Mafalda) ad un questionario di Proust apparso su un settimanale. 

Il brillante uomo alla domanda: Qual è il suo rimpianto ? ha risposto: "Non aver capito la vita."

E' una risposta filosofica, molto interessante. 

Chi, infatti, potrebbe dire di "aver capito la vita?"

Alcuni, in effetti lo sostengono.  Ma si tratta per lo più di interpretazioni, convinzioni, deduzioni che afferiscono più al sentire che al capire.

Dal momento che la vita è - per sua stessa natura - incomprensibile e il senso di essa, come sosteneva Wittgenstein in una sua celebre proposizione, se esiste, esiste solo al di fuori di essa, oltre di essa.

Mordillo però dice questo con dolente constatazione, come se si trattasse di aver mancato ad un compito. 

In effetti, da un certo punto di vista, lo è. 

Perché il nostro vivere è precisamente questo: cercare di trovare un senso, affermare un senso all'incomprensibilità della nostra vita.

Se però lo scopo della vita è preceduto da quel qualcosa di inafferrabile che  Robert M. Pirsig nel suo best-seller on th road/filosofico Lo Zen e l'arte di manutenzione della motocicletta, definiva la Qualità (e che nel corso della storia della filosofia è stato diversamente denominato come Bene, o Ideale, ecc..), valore o significato che dà il senso alla vita stessa per chi se ne fa tramite, anche Mordillo deve stare tranquillo: la Qualità lui l'ha incarnata, nel suo campo.  Ha dato senso alla Qualità, e con essa stessa, anche alla sua vita - anche se non lo sa.

Fabrizio Falconi


02/12/11

Dostoevskij: l'Idiota, una scommessa contro ogni ragionevolezza. Così è il bene.




Non si finirà mai di riscoprire la grandezza di Dostoevskij e dei suoi eterni romanzi.  Nell'Idiota c'è la scommessa vinta - e difficilmente ripetuta in termini moderni - di descrivere il bene. La purezza di spirito.

Oggi che conosciamo ogni geografia del male - vissuto, vivisezionato, e parossisticamente dilatato - nella letteratura e nell'arte contemporanea (dove il bene è bandito come se fosse di cattivo gusto), sorge il sospetto che scrivere del bene sia troppo difficile (come lo fu per Dostoevskij, evidentemente) e molti preferiscono rinunciare, essendo ogni male troppo a buon mercato per potervi rinunciare.

Eppure, rileggendo questo libro, ogni pagina sussurra profondità difficili da immaginare.

Potete star certi che Colombo non era felice nel momento in cui scoperse l'America, bensì quando era in viaggio per scoprirla [...] L'importante non era quel Nuovo Mondo, che magari poteva anche inabissarsi. [...] L'importante sta nella vita, solo nella vita, nel processo della sua scoperta, in questo processo continuo ed ininterrotto, e non nella scoperta stessa! [...] Del resto, voglio aggiungere che ogni idea nuova o geniale concepita da un uomo, o anche, semplicemente, ogni idea seria gemmata nella mente di qualcuno, resta sempre qualcosa che è impossibile trasmettere agli altri uomini, anche se si scrivessero interi volumi e si impiegassero anche trentacinque anni nell'intento di interpretarli; rimarrà sempre qualcosa che si rifiuterà in ogni modo di uscire dalla vostra testa e resterà sempre chiuso in voi...

Il principe Myskin è prigioniero del suo bene. Non si placa e non si rassegna, anche se ogni volta l'onda del suo spirito nobile, primitivo, incontaminato, si infrange sulla scogliera dei mille mali, delle mille crudeli chiusure che gli uomini hanno escogitato, da sempre, per negare la forza e la verità di un sentimento (umano).

Vi sono uomini che non hanno mai ucciso, eppure sono mille volte più cattivi di chi ha assassinato sei persone.


Myskin soccombe senza lasciare apparentemente traccia. Come una nave che sprofonda in mare con tutte le  luci accese.  Eppure, la grande onda di quella nave affondata, ancora lambisce così da vicino i nostri passi.


20/12/08

Il dolore innocente.


Cari tutti, vi riporto qui di sotto l'articolo integrale scritto da Vito Mancuso per 'Il foglio' l'8 dicembre scorso, su "Il dolore innocente", con argomenti che richiamano quelli da lui espressi nel libro "L'anima e il suo destino."



In questo articolo intendo ragionare sul dolore innocente, spronato dalle polemiche dei giorni scorsi sul rifiuto della Santa Sede di sottoscrivere il documento delle Nazioni Unite sulle persone handicappate. Francamente non ho capito bene il senso di tale rifiuto, e ancora meno quello che riguarda il documento sulle persone omosessuali. Ma mi occupo di teologia, non di diplomazia, e posso solo tentare di contribuire con qualche riflessione teologica. Inizio ricordando che il berillo è un minerale che appartiene al gruppo dei silicati, ha cristalli esagonali e nelle sue forme più pure può essere verde (smeraldo), azzurro (acquamarina), o anche giallo, rosa e bianco. E’ al berillo bianco che si rifà uno dei più grandi pensatori cristiani di tutti i tempi, Niccolò Cusano (1401-1464), scrivendo il “De Beryllo”, trattato concluso nel 1458. Vi si legge all’inizio: “Il berillo è una pietra lucida, bianca e trasparente, cui si dà una forma parimenti concava e convessa; e chi guarda attraverso di esso vede ciò che prima gli era invisibile.

Se si applica agli occhi dell’intelletto un berillo intellettuale, che abbia forma parimenti massima e minima, attraverso di esso si coglie il principio indivisibile di tutte le cose” (“De Beryllo”, cap. II; ed. it. Niccolò Cusano, Scritti filosofici, a cura di Giovanni Santinello, vol. II, Zanichelli, Bologna 1980, p. 385). Io assumo il dolore innocente quale “berillo intellettuale” per capire il senso del nostro essere al mondo.

Non tutti i dolori sono innocenti. Se uno viene impiccato perché ha violentato dei bambini si può discutere sulla proporzionalità e la liceità della pena capitale che gli viene inflitta, ma non vi sono dubbi che il dolore che subisce sia riconducibile a una sua colpa e quindi colpevole. Non così invece quello dei bambini violentati: il loro dolore è senza colpa, è innocente. Nel mondo vi sono molteplici tipologie di dolore innocente, di cui il caso esemplare a mio avviso è nelle nascite colpite da una delle svariate migliaia di malattie genetiche finora censite, il cinque per cento dei nati oggi nel mondo. Le statistiche dicono che ogni giorno nel mondo ottomila bambini nascono gravemente handicappati, di questi 76 in Italia. Penso sia compito della teologia porsi la domanda metafisica sul perché di queste nascite, su come conciliarle con l’affermazione tradizionale, così spesso ripetuta, che la vita viene da Dio.

Tre risposte sbagliate. Di fronte al dolore innocente vi sono di solito tre reazioni, a mio avviso tutte sbagliate: la prima è il fideismo, la seconda il razionalismo, la terza la disperazione. Sono tutte e tre una sconfitta della ragione, del logos interiore a ciascuno di noi, chiamato a riconoscere la sua appartenenza al logos che è all’origine del mondo – perché precisamente questo è lo scopo della vita.
1) Il fideismo è quell’atteggiamento mentale che genera il senso opprimente del mistero e della vita umana come nulla, polvere, in balìa di una forza misteriosa e talora anche capricciosa che è la forza divina. A questo livello non ha molta importanza che tale forza venga ritenuta impersonale, come gli antichi greci pensavano il fato, oppure personale, come se la raffigura la fede giudaico-cristiana e anche l’islam: quello che conta è il senso di nullità dell’uomo di fronte a essa, il fatto che non vi sia nessun rapporto stabile, sicuro, affidabile, nessuna vera alleanza di Dio con il singolo uomo. E’ la spiritualità cui invita l’intervento divino nel finale del libro di Giobbe. A Giobbe che si lamenta del suo dolore ritenendolo innocente, cioè ingiustificato, Dio risponde: “Chi è costui che oscura il mio consiglio con parole insipienti?” (38, 2), e poi gli rovescia addosso tutte le meraviglie del cosmo facendolo sentire un nulla. E infatti Giobbe conclude: “Ho esposto senza discernimento cose troppo superiori a me… perciò mi ricredo e ne provo pentimento sopra polvere e cenere” (42, 3 e 6).

2) Il razionalismo è l’atteggiamento mentale generato dall’apologetica. Dio governa il mondo con forza e giustizia, quindi non vi può accadere nulla contro il suo volere e il suo senso di giustizia. Non c’è perciò nessun dolore innocente: se c’è un dolore, c’è stata di sicuro, prima, una colpa che l’ha prodotto. Il dolore, quindi, è sempre colpevole. E’ quello che dice a Giobbe il secondo dei tre amici, Bildad: “Può forse Dio deviare il diritto o l’Onnipotente sovvertire la giustizia? Se i tuoi figli hanno peccato contro di lui, li ha messi in balìa delle loro iniquità” (8, 3-4). La stessa cosa dice Zofar: “L’iniquità è nella tua mano, l’ingiustizia nelle tue tende” (11, 14). Il cristianesimo conosce una forma moderata di razionalismo in quella teoria che riconduce il dolore a un progetto di Dio, secondo cui il dolore, innocente quanto al soggetto che lo vive, sarebbe però misteriosamente finalizzato da Dio che lo permette per trarne un bene maggiore, come diceva Agostino e come ribadisce oggi il Catechismo (vedi Compendio, art. 58).

3) Il terzo atteggiamento, la disperazione, nasce quando il dolore vince e si impone alla coscienza che non riconosce più nulla di superiore ad esso. Che cos’è la vita? Un continuo declinare verso l’assurdo, verso il nulla. Si sentono i discorsi dei moderni amici di Giobbe, poi si guarda la realtà, e si giunge alla conclusione che quei discorsi sono solo chiacchiere, la verità è un’altra, la vita è una tragedia, a volte una farsa. Dopo aver sentito i discorsi dei tre amici teologi, Giobbe si rivolge a Dio: “Perché mi hai tratto dal seno materno? Fossi morto e nessun occhio mi avesse mai visto!” (10, 18). Parole che sono una vera e propria bestemmia, molto più dura di quelle rivolte direttamente contro Dio magari solo per abitudine; si tratta di una bestemmia contro la vita, l’azione divina per eccellenza. Si può anche bestemmiare Dio o Cristo per una falsa idea che se ne ha, ma se si bestemmia la vita si pecca contro lo Spirito, ed è il peccato che non può essere perdonato. Questo è stato, ed è ancora oggi, il risultato dei discorsi “teologici” degli amici di Giobbe.

I nostri giorni sono attraversati da una disperazione senza pari. Recentemente ho visto il film di un giovane regista italiano sulla condizione giovanile. Era venuto in università con la troupe per intervistarmi, stava realizzando un film-documentario proprio sul male, poi mi ha spedito a casa il Dvd del suo primo film. Io quindi ero ben disposto, tuttavia guardare quel film è stato durissimo per l’immenso senso di vuoto e di disperazione che conteneva. L’anima contemporanea si dibatte in una morsa: sente di aver bisogno della verità, ma sente al contempo che le risposte tradizionali non funzionano, e non sa dove andare e non sa cosa fare. I nostri giovani spesso non sanno cosa fare di se stessi. Il cristianesimo appare loro inconsistente soprattutto per l’incapacità di rispondere al problema del male. Magari non lo sanno tematicamente, ma lo sentono.

Il limite della dottrina è stato finora, a mio avviso, quello di fare del dolore un problema da risolvere. Occorre invece fare del dolore il berillo intellettuale. E non certo per un malsano dolorismo, ma per il più grande atto di omaggio alla vita, la quale può essere compresa solo guardandola come totalità. Per riconciliare gli uomini col senso della vita, è necessario guardare con onestà al tutto della vita, il che comporta l’inevitabile passaggio attraverso “il travaglio del negativo”. Scrive ancora Hegel nella “Fenomenologia dello spirito”: “La vita di Dio e il conoscere divino possono venire espressi come un gioco dell’amore con se stesso; ma questa idea degrada fino alla predicazione, e addirittura all’insipidezza, quando mancano la serietà, il dolore, la pazienza e il travaglio del negativo”. Quante volte sentendo le prediche su un Dio che ci ama, che è amore, che vince il dolore, si sente insipidezza, un vuoto parlare di cose tanto distanti dalla vita reale. Fare del dolore innocente il berillo intellettuale significa comprendere che nel dolore innocente la posta in gioco non è la sorte di qualche sfortunato, ma è la complessiva visione del mondo (metafisica) e conseguentemente l’azione umana in esso (l’etica). La nascita di una sola bambina con una malformazione genetica ha a che fare con il senso della vita di ognuno. E’ il principio formulato da Kierkegaard: “Se si vuole studiare correttamente l’universale è sufficiente ricercare una reale eccezione. Essa porta alla luce tutto più chiaramente… Le eccezioni esistono. Se non si è in grado di spiegarle, non si è nemmeno in grado di spiegare l’universale” (“La ripetizione”, tr. it. di Dario Borso, Guerini e Associati, Milano 1991, pag. 128).

Nel dolore che il mondo riserva ai suoi figli è in gioco la filosofia in quanto fisica + metafisica, e la conseguente costruzione dell’etica.

Il dolore innocente ci dice che l’uomo è natura, fragile natura come ogni altra parte del cosmo, esposta alle ferite del caso. Ma io penso che esso sia il luogo dialettico per eccellenza, dove si scorge l’abisso, ma dove insieme lo si può superare. Il dolore innocente mi ha fatto vedere l’abisso del nulla, ma al contempo mi ha mostrato la luce più intensa che io abbia mai visto intorno alla natura umana, la luce che scaturisce da chi si prende cura di chi nulla mai gli potrà dare in cambio. Di fronte a un’assurdità naturale, l’uomo reagisce creando senso laddove senso naturale non c’è, e si mostra in grado di produrre ciò che di più importante esiste per la vita, cioè il bene.

Coloro che si prendono cura delle vittime del dolore innocente mostrano che vi è qualcosa di più della semplice casualità naturale nel fenomeno uomo. E questa cura avviene, ogni giorno, senza retorica, poche parole, tanti fatti, nella completa gratuità, perché a volte non si ottiene nulla in cambio, talora gli interessati non sanno neppure sorridere. Il bene è l’evento più nobile a cui l’uomo può accedere. Tutte le grandi spiritualità e le grandi filosofie lo hanno riconosciuto. Ma perché l’uomo è capace di bene?

Eccoci all’ultimo punto. Il bene lo si comprende nella sua realtà ontologica come relazione ordinata. Il bene nasce sì dalla volontà, ma non è qualcosa che la volontà inventa. Se la volontà sceglie di attuarlo è perché prima l’ha riconosciuto, l’ha visto, l’ha sentito, e quindi si pone al servizio di un’oggettività che preesiste, che viene prima di lei. Se voglio fare del bene a una pianta, le devo dare la giusta quantità di acqua e la devo esporre alla giusta quantità di luce. Così è per ogni altra cosa.

Il bene è prima di tutto comprendere che cosa ha bisogno chi è di fronte a me, e poi farlo. Esiste un ordine oggettivo preesistente, che è l’origine di ogni essere, dentro cui ogni essere si inscrive. Questo ordine oggettivo è la relazione ordinata, la logica che costruisce il darsi dell’essere.Le nascite di bambini con malformazioni, come tanti altri eventi della natura e della storia, ci mostrano che l’essere del mondo non raggiunge l’ordine necessariamente, ma solo attraverso la libertà delle relazioni. Proprio perché l’essere è energia che costantemente si muove, la libertà è intrinseca al suo darsi. Questa libertà di cui gode l’essere il più delle volte è ordinata e fonda relazioni stabili e benefiche; alcune volte, invece, non lo è e fonda relazioni disordinate. Le malattie, congenite e non, sono descrivibili fisicamente come assenza di ordine. Questa possibilità che vi sia assenza di ordine è il prezzo che si paga per il darsi dell’essere, per la nascita della vita e la sua evoluzione, cioè, supremo paradosso, per la creazione di livelli superiori di organizzazione.

Alcuni più sfortunati pagano sul loro corpo il conto che occorre saldare per il darsi della libertà. Coloro che se ne prendono cura, fanno del bene a tutta l’umanità perché manifestano che il bene esiste, e se qui e ora esiste il bene è lecito inferire razionalmente l’esistenza di una dimensione dell’essere senza più la possibilità di disordine, dimensione che la mente umana di tutti i tempi ha chiamato “Dio”. L’ha riconosciuto anche uno dei più grandi logici del Novecento, Wittgenstein, in un pensiero del 1929: “Se qualcosa è buono, allora è anche divino” (“Pensieri diversi”, a cura di Michele Ranchetti, Adelphi, Milano 1980, pag. 21).

Il bene è la freccia che conduce verso la trascendenza. Per questo tutti coloro che vogliono negare la trascendenza negano con attenta determinazione la possibilità della purezza del bene e dell’amore, riconducendo tutto a istinto, a impulso, a interesse mascherato. Ma il bene puro esiste, e quando si manifesta, la natura compie la promessa che porta dentro di sé. E’ il regno della luce e della grazia, è il mondo divino. Se c’è il bene, c’è Dio. E il bene, c’è.

12/04/08

L'istinto morale è innato - Uno studio dell'Università di Yale.


Per molte persone è difficile pensare all'esistenza dell'anima. Concepiscono l'essere umano come un intreccio di componenti biologiche che interagiscono tra di loro, fini a se stesso, governati da reazioni meccaniche o meccanicistiche, a base fisio-chimica.

A me invece sembra del tutto evidente che oltre la pura biologia, esiste un quid di inafferrabile nell'essere umano, che non è solo biologia, un qualcosa di più che non sappiamo cos'è e che non sappiamo definire, ma che esiste e ci è data.

Mi è sembrato sempre evidente. E mi sembra tuttora evidente.

L'idea è poi confortata quando arrivano notizie come queste: un recente studio americano, pubblicato sulla prestigiosa rivista Nature compiuto da ricercatori dell'Università di Yale, ha dimostrato che i bambini, già a pochi mesi, sono in grado di riconoscere e apprezzare l'altruismo nei protagonisti di una semplice storia illustrata.

Lo studio documenta come bimbi di sei e dieci mesi, spettatori di una storiella interpretata da pupazzi, sono in grado di scegliere tra diversi tipi: l'altruista, il neutrale, il cattivo.

Inoltre la maggioranza dei bambini, senza alcun condizionamento esterno, preferisce il modello del "buon samaritano".

"Questo studio" spiegano i ricercatori, " confermerebbe l'ipotesi secondo cui le capacità di valutare le persone è un adattamento biologico universale e non appreso. L'abilità di riconoscere le persone da cui possiamo ricevere aiuto è essenziale."

E quindi, conclude lo studio, anche l'istinto morale sarebbe innato. In qualche modo pre-scritto nel nostro essere, e dato come assunto precostituito.

Se la capacità di identificare e scegliere il bene è innata, per quale motivo al mondo dovremmo negare di possedere un'anima ?