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03/03/18

Dieci foto, le Dieci Grandi Anime di cui si parla in "Cercare Dio" di Fabrizio Falconi.

Ecco dieci ritratti delle dieci Grandi Anime di cui si parla in Cercare Dio, di Fabrizio Falconi, appena uscito da Castelvecchi Editore, in tutte le librerie. 

Etty Hillesum (1914-1943)

Jiddu Krishnamurti (1895-1986)

Ingmar Bergman (1918-2007)

Frère Roger Schutz (1915-2005)

Dag Hammarskjöld (1905 – 1961)

Antonia Pozzi (1912-1938)

Andrej Tarkovskij (1932-1986)


Raimon Panikkar (1918-2010)


Clive Staples Lewis (1898 – 1963)


Pavel Florenskij (1882-1937)


20/12/13

(Dieci grandi anime) - Antonia Pozzi (4.)




(Dieci grandi anime) - Antonia Pozzi (4.)  

Allo stesso modo di queste cose sorelle, anche Antonia diventa un cero sui fiori d’autunno. La sua vita, brevemente consumata, si rende eterna in un sacrificio di luce.
     Fa parte di questa disperazione mortale anche la crudele oppressione che si esercita sulle nostre giovinezze sfiorite, scrive Antonia nel suo biglietto di addio. (8)
     E’ probabile che l’essere vissuta in un periodo così estremo, nel pieno di rivolgimenti drammatici, abbia giocato un ruolo nella sua decisione finale.  Ma, nel mistero di una fine violenta e prematura – che la accomuna a molte poetesse e poeti del novecento, Ingeborg Bachmann, Sylvia Plath, Virginia Woolf, Marina Cvetaeva, e poi Paul Celan, Cesare Pavese, Carlo Michelstaedter – c’è, in Antonia, nella sua intera opera poetica e ancora di più nella sua sofferta esistenza, un soffio di consapevolezza sacra.
     Un sacro – anche qui – che è difficile restringere nei rigidi recinti della liturgia e della confessione ortodossa. La Pozzi infatti non fu mai religiosa praticante, anche se così tante  pagine della sua poesia, delle lettere, e del Diario (9) sono percorse da un febbrile senso e da un altrettanto inquieto bisogno del divino.
      Con Antonio Maria Cervi – fervente cattolico – sarà proprio questo uno dei punti di attrito e di sofferto fraintendimento.
      Tu, tu che mi dici che io non ho niente di sacro… - scrive Antonia a Cervi il 1. marzo del 1932 – oh, è atroce, è atroce che tu mi dica così, perché vuol dire che dove io tengo le mie cose più sacre tu non sei mai, mai penetrato e non hai nemmeno veduto che per me è sacro tutto quello che è sacro per te. (10)
      Per Antonia, questo punto a quanto pare non riesce a capirlo nessuno di coloro che le sono vicini, è difficile – sperimentando le difficoltà di una vita sovrasensibile e mancante di risposte adeguate – ritrovare quel Dio semplice nel quale, “da bambina, aveva insegnato a credere ai piccoli montanari, che scendevano a Pasturo per frequentarvi la scuola, e sul quale era solita intrattenere per ore la Sandra, la sua compagna di giochi, dopo averla aiutata a fare i compiti di scuola, per dare il tempo  a lei, di condizioni non agiate, di badare ai fratellini”. (11)
     Dio può essere abitato e vissuto pienamente soltanto a prezzo di una vita vera, vissuta.  E Antonia, non riesce a viverla pienamente.  Il suicidio che mette in scena è un vuoto pieno di vita, è una vita pienamente raggiunta – per le possibilità che può offrire – e pienamente, dolorosamente abbandonata.
     Ma in una prospettiva intima, segreta, di speranza.
     Soltanto un anno prima di morire,  il 13 maggio del 1937,  e di trasmettere – del tutto inedito – il suo grande lascito poetico che oggi appare più vitale e più ispirato che mai,  scriveva una poesia intitolata Amor fati che appare,  in appena otto versi,  una specie di summa del suo sofferto percorso spirituale :
      
      Quando dal mio buio traboccherai
      di schianto
      in una cascata
      di sangue – 
      navigherò con una rossa vela
      per orridi silenzi
      ai cratèri
      della luce promessa.  (12)


    (4. - fine) 

Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata. 

       

8.      Il cosiddetto Testamento, ovvero il biglietto d’addio di Antonia, contenuto nella borsetta che aveva il giorno del suicidio, è pubblicato in Antonia Pozzi, L’età delle parole è finita, op. cit. pag. 112.
9.      I Diari di Antonia Pozzi sono pubblicati in Italia da Scheiwiller, Milano 1988.
10.     Antonia Pozzi, L’età delle parole è finita, op. cit. pag. 47.
11.     Così Onorina Dino in Le lettere di Antonia Pozzi, in L’età delle Parole è finita, op. cit. pag. 125.
12.      Antonia Pozzi, Parole, op. cit. pag. 293.

19/12/13

(Dieci grandi anime) - 4. Antonia Pozzi (3./)





(Dieci grandi anime) - Antonia Pozzi (3./)  



Scrive nella occasione di quel viaggio una poesia, intitolata Viaggio al Nord, che termina con queste parole :
    
    Ripudia
    questo sangue il suo sole e le stagioni
    infuriando
    così  sotterra, nella magica notte.  (5)

    Sente, il suo cuore non può non sentire, quello che si prepara. L’odore del sangue che già si sparge sotto il sole.  Anche i suoi migliori amici, come Paolo Treves – che è fuggito a Londra da dove conduce una rubrica per Radio Londra – sono in pericolo, o sono già morti, come Gianni Manzi, compagno d’università molto amato che si è tolto la vita due anni prima, nel 1935.
    Non gli sono di conforto – se non temporaneo – l’amicizia, la fraternità con altri amici poeti, come Vittorio Sereni, le lunghe discussioni sull’arte, quando si accompagnano a casa la sera.  Oppure come  altri coetanei come Luciano Anceschi, Remo Cantoni, Enzo Paci, Maria Corti.
    Divengono più frequenti, alla fine della sua breve vita, le visite alla nonna, Maria Cavagna, e quelle a Pasturo, l’unico posto dove davvero sembra ritrovare un po’ di pace.
    Probabilmente matura lentamente in lei un desiderio di sparire quietamente, e che del resto abita in lei già da tempo.   In una poesia del 1930,  scritta a diciott’anni,  descrive il raccoglimento interiore di una visita in chiesa, e scrive: 
   
    O lasciate che io sia
    una cosa di nessuno
    per queste vecchie strade
    in cui la sera affonda.

    Non domandatemi se prego
    e chi prego
    e perché prego.

    io entro soltanto
    per avere un po’ di tregua
    e una panca e il silenzio
    in cui parlino le cose sorelle –
     poi ch’io sono una cosa –
     una cosa di nessuno
     che va per le vecchie vie del suo mondo –
     gli occhi
     due coppe alzate
     verso l’ultima luce.  (6)

     Quell’ultima luce è in definitiva la luce beata delle montagne, che Antonia conosce bene, che esplora con gli occhi e con l’obiettivo della sua macchina fotografica. Il suo divenire continuo, il suo mutare, il suo non trovare appigli , è il simbolo di una ricerca che non può che incarnarsi nello spirito vitale che la abita e che non trova un abbraccio sicuro, un luogo stabile nel quale trovare pace, se non nell’immagine paziente di una luce ulteriore, irraggiungibile in questa vita.
    
     Abbandonati in braccio al buio
     monti
     m’insegnate l’attesa:
     all’alba – chiese
     diverranno i miei boschi.
     arderò – cero sui fiori d’autunno
     tramortita nel sole.   (7)

     E’ una delle ultime poesie, senza indicazioni di data precisa, nelle quali si individua il sogno di un’altra vita, che possiede lo spirito di Antonia:  l’attesa di quei monti, di quei boschi che diventano chiese.



(3./ segue) 

Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata. 

18/12/13

(Dieci grandi anime) - 4. Antonia Pozzi (2./)





(Dieci grandi anime) - Antonia Pozzi (2./)  

    E’ ben strana una ragazza di diciassette anni che scrive già con questa intensità.  Una ragazza di diciassette anni capace perfino di offrirsi di dare un figlio al professore, perché lo compensi del lutto inconsolabile del fratello – Annunzio Cervi, poeta, caduto in guerra sul Monte Grappa, nel 1918 – e che ne porti lo stesso nome.
   Si direbbe una smisurata capacità di amare.  Che difatti resterà inadeguata, causa di sofferenza, di mancanze  sempre più difficili da sopportare.
   Sì, perché l’amore con il professore, Cervi, non è di quelli destinati a trovare una soddisfazione terrestre: quando il padre di Antonia scopre la tresca, dapprima ottiene il trasferimento del professore a Roma, poi rifiuta la sua proposta di matrimonio, infine fa allontanare la ragazza da Milano, nel luglio del 1932.
   In questi anni di drammatica lacerazione, vissuti con la sensibilità esasperata della giovinezza, Antonia elabora un particolare percorso di maturità, a prezzo di un sacrificio che le appare impossibile da scontare.
   E’ la poesia a salvarla, a riempirla veramente. Nella poesia trova l’unica completezza che le è possibile sperimentare.
   Il 29 gennaio del 1933 scrive a Tullio Gadenz, un giovane amico poeta a cui invia delle memorabili lettere che hanno per argomento principale la bellezza della montagna: Vivo della poesia come le vene vivono nel sangue. Io so cosa vuol dire raccogliere negli occhi tutta l’anima e bere con quelli l’anima delle cose e le povere cose, torturate nel loro gigantesco silenzio, sentire mute sorelle al nostro dolore.   Perché per me Dio è e non può essere altro che un Infinito, si concreta incessantemente entro forme determinate che ad ogni attimo si spezzano per l’urgere del fluire divino e ad ogni attimo si riplasmano per esprimere e concretare quella Vita che, inespressa, si annienterebbe.   Ora Lei vede che un Dio così non si può né chiamare né  pregare né  porre lungi da noi per adorarLo; Lo si può soltanto vivere nel profondo, poi che è Lui l’occhio che ci fa vedere, la voce che ci fa cantare,  l’amore, ed il dolore che ci fa insonni. 
     Io credo che il nostro compito, mentre attendiamo di tornare a Dio, sia proprio questo: di scoprire quanto più possibile Dio in questa vita, di crearLo, di farLo balzare lucendo dall’urto delle nostre anime con le cose (poesia e dolore), dal contatto delle nostre anime tra di loro (carità e fraternità)   (2).
     Antonia riesce a cogliere l’essenza delle cose.  Forse proprio perché non avrà mai delle cose veramente sue: una casa, una vita, un compagno. (3)
     Scrive infatti, in una delle sue poesie più conosciute:
    
     Sulle rovine della mia casa non nata
     Ho sparso
     Cenere e sale. (4) 

In questo spirito errabondo che la pervade,  questa giovane donna riesce ad incarnare meglio di molti, lo spirito del tempo. Di un tempo, difficile, estremo.   La aiutano, a comprendere e a sentire, i numerosi viaggi che intraprende in giro per l’Europa, soprattutto in Germania, paese di cui ama immensamente la lingua.
      Poi la Francia, l’Austria, Vienna, e poi Praga, Budapest.  Le foto, che diventano una specie di ossessione: quelle che Antonia realizza con la sua macchina fotografica – e che parlano quanto e come le sue poesie – e quelle di altri che colleziona nel chiuso dei suoi cassetti. Quando morirà se ne troveranno più di 5000, che andranno a formare un fondo permanente.

     In una di queste foto Antonia è ritratta, all’inizio del 1937, a Berlino, in una giornata di sole, in strada, in piedi accanto ad una grande macchina sul cui parabrezza posteriore è incollata una svastica nazista. Antonia sorride, ma qualcosa nella sua espressione, nel suo portamento tradisce l’inquietudine. Cosa deve aver provato, in quei giorni, così lontana dall’eremitaggio delle sue montagne, in mezzo alla bolgia inebriante e folle della Germania che si preparava ad incendiare il mondo ? 

(2./ segue) 

Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata. 

      
2.     Antonia Pozzi, L’età delle parole è finita, pag.53
3.     Così Alessandra Cenni nella prefazione al volume L’età delle parole è finita, pag.12
4.     E’ la poesia Lamentazione.  Questo, come tutti gli altri testi poetici della Pozzi contenuti in questo capitolo sono tratti dal volume antologico: Antonia Pozzi, Parole, Garzanti, 1989. 

17/12/13

(Dieci grandi anime) - 4. Antonia Pozzi (1./)






Pubblico come ogni mese, il profilo di una grande anima da me riscritto.  Oggi la prima puntata e a seguire nei prossimi giorni le altre. 


(Dieci grandi anime) - Antonia Pozzi (1./)


     

Signore tu lo senti
ch’io non ho voce più
per ridire
il tuo canto segreto.
Signore, tu lo vedi
ch’io non ho occhi più
per i tuoi cieli, per le nuvole tue
consolatrici.

Signore, per tutto il mio pianto,
ridammi una stilla di Te
ch’io riviva.

Perché tu sai, Signore,
che in un tempo lontano
anch’io tenni nel cuore
tutto un lago, un gran lago,
specchio di Te.
Ma tutta l’acqua mi fu bevuta,
o Dio,
ed ora dentro il cuore
ho una caverna vuota,
cieca di Te.

Signore, per tutto il mio pianto,
ridammi una stilla di Te,
ch’io riviva.

   E’ una poesia – Preghiera -  che Antonia Pozzi scrisse il 20 Ottobre del 1932. Antonia è all’epoca una studentessa universitaria, all’Università Statale di Milano, ha appena vent’anni. La sua giovane vita sta per spezzarsi. Succederà appena sei anni dopo, alla periferia di Milano, in un prato innevato di fronte all’Abbazia di Chiaravalle.  E’ il 3 dicembre del 1938, poche settimane prima Hitler ha iniziato l’occupazione dei Sudeti e in Italia sono state promulgate le leggi razziali. Antonia ha ingerito barbiturici.  Il suo corpo viene ritrovato da un passante.  Nella borsetta, c’è un messaggio di addio indirizzato alla mamma e al papà. Si conclude con queste parole: Mi ritroverete in tutti i fossi che ho tanto amato. E non piangete perché sono in pace.
   Il suicidio viene subito archiviato come uno dei molti di quegli anni bui, in cui la guerra torna a gravare ancora più spaventosamente sul mondo: è soltanto una studentessa che ha deciso di farla finita, Antonia del resto non ha pubblicato fino a quel giorno nemmeno un rigo delle sue poesie. 
   Eppure, proprio a partire da quella morte, avvertita come una vergogna dalla famiglia – il padre, stravolto dal dolore incenerisce perfino il biglietto di addio, ricostruendolo solo più tardi, a memoria – e da un ambiente -  quello della cultura fascista - che non ha molto in simpatia chi sceglie di suicidarsi,  l’opera di Antonia, scritta in soli nove anni, diventa un classico del Novecento poetico italiano, con continue pubblicazioni e studi critici, fino ai giorni nostri. 
   Non è difficile comprendere perché.  Già il testo che abbiamo riportato qui - la Preghiera - dice molto sullo spirito di questa donna, e forse bisognerebbe leggerla più volte, per apprezzarne le sottili sfumature. 
   Che Antonia fosse dotata di una sensibilità fuori dal comune era stato chiaro sin dall’inizio, sin dai suoi anni giovanili.
   Nata in una famiglia di antico lignaggio -  il padre è un’importante avvocato milanese e la madre è la contessa Lina Cavagna Sangiuliani – trascorre l’infanzia e l’adolescenza dapprima nelle grandi ville della nonna materna, a Bereguardo e a Carate Urio, poi nella splendida casa milanese di via Mascheroni.  I periodi di vacanza l’intera famiglia si trasferisce invece a Pasturo, in Valsassina, dove i Pozzi hanno comperato una dimora del Settecento,  Villa Marchiondi, ai piedi delle Grigne, in provincia di Lecco.
   Ad Antonia viene assicurata l’educazione migliore di una famiglia benestante: pianoforte, lo sport - sci, nuoto, equitazione-  l’arte applicata - il disegno e la scultura – le scuole migliori. 
   Ma questa perfezione non si addice o non completa comunque una personalità già teneramente inquieta, già alla ricerca di qualcosa di indefinito, che preme, che vuole uscire, che non si accontenta.
   Si iscrive al Liceo classico Manzoni, di Milano, uno dei più prestigiosi, studia con profitto – imparandole alla perfezione – tre lingue straniere: tedesco, francese, inglese.  Ha la fortuna di avere un brillante professore di latino e greco, Antonio Maria Cervi.  L’uomo è molto più grande di lei.  Eppure nasce un intenso, profondo e drammatico legame.   Un legame che verrà bruscamente spezzato per lo scandalo che ne consegue e che segnerà profondamente tutta la sua esistenza fino alla morte.
 E’  terribile essere una donna e avere diciassette anni, scrive Antonia in una lettera al professore, all’inizio della loro relazione, il 13 luglio del 1929, al ritorno di un viaggio, dentro non si ha che un pazzo desiderio di donarsi.  Che cosa è un ritorno ? Una cosa che per qualche ora  scioglie i duri groppi che separano l’oggi dall’ieri e fonde il passato e il presente con sicurezza fresca, dove il male non ha luogo. (1) 

Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata. 

1.     I brani delle lettere citati in questo capitolo sono tratti dal volume: Antonia Pozzi, L’età delle parole è finita – Lettere 1927-1938  Rosellina Archinto Editore, Milano, 1989. 

01/02/13

Abbandonati in braccio al buio - Antonia Pozzi.






Abbandonati in braccio al buio
monti
m’insegnate l’attesa:
all’alba – chiese
diverranno i miei boschi.
arderò – cero sui fiori d’autunno
tramortita nel sole.

E’ una delle ultime poesie di Antonia Pozzi (Milano, 13 febbraio 1912 – Milano, 3 dicembre 1938), senza indicazioni di data precisa, nelle quali si individua il sogno di un’altra vita, quello che sembra pervadere lo spirito di uno dei più grandi poeti italiani.

L'attesa di quei monti, di quei boschi che diventano chiese. Allo stesso modo di queste cose sorelle, anche Antonia diventa un cero sui fiori d’autunno. La sua vita, brevemente consumata, si rende eterna in un sacrificio di luce.

Fa parte di questa disperazione mortale anche la crudele oppressione che si esercita sulle nostre giovinezze sfiorite, scrive Antonia nel suo biglietto di addio.

E’ probabile che l’essere vissuta in un periodo così estremo, nel pieno di rivolgimenti drammatici, abbia giocato un ruolo nella sua decisione finale. 

 Ma, nel mistero di una fine violenta e prematura – che la accomuna a molte poetesse e poeti del novecento, Ingeborg Bachmann, Sylvia Plath, Virginia Woolf, Marina Cvetaeva, e poi Paul Celan, Cesare Pavese, Carlo Michelstaedter – c’è, in Antonia, nella sua intera opera poetica e ancora di più nella sua sofferta esistenza, un soffio di consapevolezza sacra.


Fabrizio Falconi

16/05/11

Lessico dei poeti 6 - 'Pioggia'.

Il mistero di un grande poeta non può mai essere del tutto svelato. Questa banale considerazione vale per casi esemplari come Leopardi, che in un ‘recinto chiuso’ di vita, hanno saputo scavalcare l’infinito. In America qualcosa di simile è accaduto con Walt Whitman. Che per esempio, pur non avendo mai viaggiato oltre i confini del suo stato, è secondo alcuni, il più europeo dei poeti americani. E lo è, forse, anche in certe piccole sottigliezze. Partendo dalla semplice parola ‘pioggia’ , Whitman imbastisce un segreto dialogo che porta oltre confini impensabili:

E tu chi sei? Chiesi alla pioggia che scendeva dolce,

e che strano a dirsi, mi rispose, come traduco di seguito:

sono il Poema della Terra, disse la voce della pioggia,
eterna mi sollevo impalpabile su dalla terraferma e dal mare insondabile, su verso il cielo, da dove, in forma labile, totalmente cambiata, eppur la stessa,
discendo a bagnare i terreni aridi, scheletriti, le distese di polvere del mondo, e ciò che in essi senza di me sarebbe solo seme, latente, non nato; e sempre, di giorno e di notte, restituisco vita alla mia stessa origine, la faccio pura, la abbellisco; perché il canto, emerso dal suo luogo natale, dopo il compimento, l’errare, sia che di esso importi o no, debitamente ritorna con amore.

Whitman interroga la pioggia, come se fosse un essere vivente. E la pioggia gli risponde. Manifestandosi come artefice di cambiamento, come restituzione di senso, potremmo dire: come ‘anima mundi’.

Qualcosa di diametralmente opposto, eppure di egualmente ‘catartico’ avviene nella poesia di Carlo Michelstaedter, l’infelice e geniale poeta goriziano, nato nel 1887 (cinque anni prima della morte di Whitman). In lui, pessimismo e desiderio di raggiungere quel mondo incondizionato che sta al di là dei limiti della vita umana si coniugano in una sorta di tragico eroismo, che ben sintetizza il titolo di una sua poesia: VOGLIO E NON POSSO E SPERO SENZA FEDE. Qui troviamo un canto alla pioggia, ben diverso da quello di Withman:

Cade la pioggia triste e senza posa

a stilla a stilla

e si dissolve. Trema

la luce d'ogni cosa. Ed ogni cosa

sembra che debba

nell'ombra densa dileguare e quasi

nebbia bianchiccia perdersi e morire

mentre filtri voluttüosamente

oltre i diafani fili di pioggia

come lame d'acciaio vibranti.

Qui la pioggia è dunque non qualcosa che rinnova e ri-crea. Ma qualcosa che dilegua, fa perdere e morire, come in una specie di ‘voluttuoso oblio’.

Più vicino invece al senso whitmaniano della pioggia, miracolosa rinnovatrice, che consente un cambio di prospettiva, e di vita, è la poesia Anni dopo che Vittorio Sereni scrisse nel 1941 e che fa parte de: Gli strumenti umani:

La splendida la delirante pioggia s'è quietata,

con le rade ci bacia ultime stille.

Ritornati all'aperto

amore m'è accanto e amicizia.

E quello, che fino a poco fa quasi implorava,

dall'abbuiato portico brusìo

romba alle spalle ora, rompe dal mio passato:

volti non mutati saranno, risaputi,

di vecchia aria in essi oggi rappresa.

Anche i nostri, fra quelli, di una volta?

Dunque ti prego non voltarti amore

e tu resta e difendici amicizia.

La pioggia è cessata, e noi siamo sopravvissuti. Non soltanto: il rombo che è alle spalle ci consente di apprezzare, di guardare negli occhi quello che abbiamo, quel che di certo abbiamo costruito, e non è poco. Anche se le ombre non sono scomparse. I nostri volti, infatti, potrebbero far parte ancora di quella ‘schiera del passato.’

Lo stesso soprassalto, impaurito – da pericolo scampato, da senso disperatamente ritrovato – lo ritroviamo in una poesia di poco anteriore, della grande Antonia Pozzi (1912-1938), una delle maggiori voci poetiche del Novecento italiano. La pioggia è questa volta nera, ed è anche ‘uno scroscio pazzo’, è un retaggio della notte. Qualcosa che è venuta a stravolgere, a confondere, a straniare. Qualcosa alla quale forse non è estraneo comunque quel senso di Whitman: anche la follia, anche l’urlo del vento ai vetri fecondano, nella vita di un essere umano, nella vita di un poeta, il germe coraggioso della vita. E della poesia.

RISVEGLIO

Riemersa da chissà che ombre,

a pena recuperi il senso

del tuo peso

del tuo calore

e la notte non ha, per la tua fatica,

se non questo scroscio pazzo

di pioggia nera

e l’urlo del vento ai vetri.

Dov’era Dio?


Fabrizio Falconi