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31/10/20

Libro del Giorno: "Pazza d'amore" di Adèle Hugo

 



L'amore non conosce misura.  Il dio dell'amore è anche un dèmone.

Ne erano perfettamente consapevoli i padri greci - che temevano la potenza di Eros - e quelli latini, i quali inventarono le categorie della temperanza e della giusta misura anche per mettere i freni a ciò che può sottomettere l'essere umano dal suo interno, trascinandolo in un gorgo senza uscita. 

E la figura di Adèle Hugo, la seconda figlia del grande Vate della letteratura francese, nata nel 1830 è da questo punto di vista, un caso di prammatica, o da antologia.  La sua figura ha da sempre attratto studiosi e artisti,  esercitando sui lettori della sua vicenda e delle sue poche lettere sopravvissute, una sorta di culto, in nome della sofferenza o del dolore d'amore - ancor più se senza criterio o smisurato - che forse tutti abbiamo provato almeno una volta nella vita, pur senza incorrere nell'itinerario autodistruttivo della povera Adèle. 

Per immaginarla, scrive Manuela Maddamma nel bellissimo libro che ha curato con competenza di traduttrice e curatrice, disegnando un percorso così affascinante che è praticamente quasi impossibile smettere di leggere prima di essere alla fine,  bisogna dimenticare il volto sublime di Isabelle Adjani, che nel 1975 il grande Francois Truffaut chiamò per vestire i panni della donna, nel suo bellissimo Adèle H. 

Adèle era infatti sì splendida, come la descrivono le cronache d'epoca, ma la sua bellezza sfiorì assai presto, e si trasformò nel suo contrario, mano a mano che lei stessa precipitava nel burrone della sua perdizione.

Sulla giovane ebbe certamente influsso nefasto la morte, per annegamento nelle acque della Senna, della sorella maggiore, Léopoldine, che aveva all'epoca solo diciannove anni insieme all'uomo che aveva appena sposato.

La tragedia colpì per primo il padre, Victor Hugo che decise di ritirarsi nella casa buia di Hauteville House, la villa fdi Guernsey, un'isola sperduta nel Canale della Manica, dove andò a vivere insieme alla famiglia, e dove organizzava sedute spiritiche, per cercare di mettersi in contatto con la figlia scomparsa. 

Fu proprio qui che il tenente inglese Albert Pinson, il quale prestava servizio sull'isola, precipitò nel destino di Adèle, seducendola su una terrazza a strapiombo sul mare.

Un amore fortissimo - da parte di Adèle - e quanto mai fuggevole, durato pochissimo, perché il giovane tenente quasi subito si dimostrò del tutto indifferente all'idea di sposare Adèle: non solo, le confessò tranquillamente di non amarla,  e che lei non sarebbe mai stata la donna della sua vita.

La tremenda dichiarazione e la conseguente separazione, non minarono affatto il desiderio di Adèle: lo rafforzarono anzi in senso parossistico. 

La ragazza ricorrerà ad ogni sotterfugio e menzogna per riconquistare il tenente, scapperà di casa, annuncerà ai suoi genitori per lettera un matrimonio inesistente, continuerà a inseguire la sua inutile e inutilizzabile fantasia addirittura dall'altra parte dell'oceano, ad Halifax, in Canada, dove Pinson è stato mandato col suo reggimento; starà via da casa per sette lunghi anni, illudendo continuamente la sua famiglia con propositi di ritorno mai messi in pratica; finirà per ammalarsi e ridursi a vivere come una mendicante, sempre nell'unica speranza di poter un giorno riconquistare il suo amore, che intanto continua ad umiliarla, facendosi vedere in giro con altre donne. 

Ormai prossima alla follia, Adèle fa finalmente ritorno a casa, senza riuscire a rivedere la madre, che muore probabilmente anche per il dolore causato dalle vicende delle sue due figlie,  per essere ricoverata e trascorrere i suoi giorni e anni (morirà soltanto nel 1915) in manicomio. 

Una vicenda tragica dunque, borderline, come si direbbe oggi, che suscita interrogativi e pietà, ma induce anche a chiedersi di più sulla natura dell'amore, su cosa esso contenga, su come scelga di dirigere le sue acuminate frecce e di cosa è diventato oggi. 

Manuela Maddamma orchestra il lucido piano autodistruttivo di Adèle ricostruendolo con l'ausilio di lettere inedite, di Adèle e del giro dei suoi familiari, in primis del padre-patriarca Victor Hugo, sempre in bilico tra l'infinita pietà per sua figlia e l'imbarazzo di ciò che lei e la sua vicenda comporta per la sua reputazione e per il suo ruolo pubblico. 

La cosa che colpisce maggiormente è infatti, forse, proprio quella paralisi, quella impotenza che prende padre, madre e fratelli (i due fratelli maschi di Adèle), i quali pur nutriti da ogni buon proposito non riescono a fare nulla di nulla per riportare la ragazza a casa e distoglierla dal suo amore "tossico" (come direbbero gli psicologi oggi).

Una lettura che non si dimentica


La vera Adèle Hugo



25/03/19

100 film da salvare alla fine del mondo: 6. "Effetto Notte (La nuit américaine)" di Francois Truffaut (1973)


Questo blog dedica, ad appuntamenti fissi - ogni lunedì e ogni venerdì - un catalogo personale dei miei 100 film da salvare "alla fine del mondo".  Non saranno ovviamente vere e proprie recensioni, ma un piccolo campionario degli affetti per queste opere che hanno segnato epoche e vite di molti, se non di tutti. 

100 film da salvare alla fine del mondo: 6. Effetto Notte (La nuit américaine) di Francois Truffaut (1973).

La genialità e il sentimento sono le due coordinate su cui si muove Effetto Notte, il capolavoro firmato da Francois Truffaut nel 1973 (premio Oscar per il miglior film straniero quell'anno), che prende il titolo dal noto uso delle lenti artificiali per produrre l'effetto notturno in scene girate di giorno, che in francese si chiama appunto Nuit américaine.

Il film è anzitutto un prodigio tecnico, nel suo sperimentalismo: l'oggetto della storia è infatti proprio la realizzazione di un film, raccontato dal primo giorno di manovella fino all'ultimo giorno di riprese, con la separazione dell'intera équipe di attori e di tecnici.

Interamente girato negli studi della Victorine, a Nizza, dove è riprodotta una vera piazza di Parigi con all'interno i luoghi che servono alla realizzazione di un film:  il pullman dei camerini, quello delle sale di abbigliamento, di trucco, di proiezione di  montaggio, Effetto Notte racconta contemporaneamente 2 storie: quella del film che si sta girando (intitolato Je vous présente Pamela) e quella del backstage, del dietro le quinte, cioè quella che accade veramente tra i cinque attori protagonisti, il regista - Ferrand, interpretato dallo stesso Truffaut - il produttore e i tecnici).

Il film però non assomiglia per niente a 8 e 1/2 di Fellini così come ad altri film che hanno raccontato la lavorazione di una pellicola.

Ciò che interessa Truffaut infatti non è tanto il processo creativo del regista, che sta dietro alla nascita di un film, ma il mondo di aneddoti, di situazioni, di incidenti, piccoli e grandi che costituiscono le relazioni della gente che lavora a un film. 

E il prodigio in cui riesce Truffaut, veramente miracoloso, è proprio questo: che nessuna delle scene che avvengono tra gli attori, nessuno degli incerti, nessuna delle situazioni sembra di per sé particolarmente rilevante, né tutte insieme esse compongono una vera e propria trama; ma è proprio questa dimensione corale a coinvolgere a tal punto lo spettatore che ben presto egli si sente uno dei personaggi dietro le quinte, uno dei personaggi chiamati a dare il suo contributo a questa storia che sta per nascere, che deve nascere.

Si attua così un vero e proprio gioco di specchi in cui si confonde ciò che è vero con ciò che è raccontato, l'osservatore con l'osservato, il falso e il reale, l'essenziale e la maschera. 

Il cinema, ci dice Truffaut come sosteneva Bergman in Fanny e Alexander, è un mondo in movimento che si nutre e vive e rappresenta quello reale e influenza quel mondo a sua volta. 

Un film meraviglioso e poetico che non ci si stanca mai di rivedere.

Effetto Notte
(La Nuit Américaine)
di Francois Truffaut
Francia, Italia, 1973
con Jacqueline Bisset, François Truffaut, Valentina Cortese, Jean-Pierre Aumont.



31/05/16

Francesco Piccolo e il Male sullo schermo. Non è stato Hitchcock ma Kubrick a scoperchiare il nostro cuore nero di spettatori.






Francesco Piccolo, nell'ultimo numero de La Lettura, riaffronta l'annosa questione del Male sullo schermo (Dalla parte del Male, 29 maggio 2016), prendendo a spunto il successo della violenta serie Gomorra 2, dove praticamente i buoni non esistono più, e i cattivi sono diventati perfino modelli da emulare, come avviene anche per House of Cards e innumerevoli altri prodotti dell'entertainment contemporaneo. 

Piccolo dedica quasi tutto il suo lungo articolo alla dimostrazione che il diritto di progenitura per questo sdoganamento del male, spetta di diritto ad Alfred Hitchcock, e in particolare al celebre Nodo alla gola (Rope), girato nel 1948, dove il genio londinese, ispirandosi ad un dramma teatrale di Patrick Hamilton (a sua volta ispirato da un fatto di cronaca, avvenuto nel 1924, l'assassinio gratuito di un ragazzino da parte di due giovani uniti da un legame omosessuale, che sconvolse l'America) mise in scena un incredibile film girato in unico ambiente, con 11 piani sequenza, considerato oggi una pietra miliare del cinema. 

La teoria di Piccolo - ampiamente ripresa dalla celebre intervista di Francois Truffaut a Hitchcock (Il cinema secondo Hitchcock, 1966) - è che fu proprio Hitchcock a sovvertire per la prima volta il senso morale dello spettatore, portandolo a schierarsi dalla parte dei due omicidi. Durante il film, dice Piccolo, Hitchcock induce lo spettatore a parteggiare per loro, a sperare che la celebre cassapanca dove i due hanno nascosto il corpo della vittima innocente, non venga aperta; che i due non vengano smascherati dal professore di filosofia Cadell (James Stewart) insospettito dal comportamento dei suoi due studenti, che hanno messo in pratica fino all'estremo, le sue teorie. 

La teoria di Piccolo non mi convince, perché l'ho sperimentata su di me. E in tutte le volte che ho visto quel film mi sono invece ritrovato dalla parte dello spettatore che 'spera' che i due vengano scoperti, cosa che non avviene (se non alla fine) per una serie fortuita di circostanze, che Hitchcock è maestro nell'accumulare, tenendo in pugno la curiosità dello spettatore. 

In realtà Hitchcock, come sanno quelli che l'hanno studiato, era il più moralista dei moralisti, e il suo gioco, nei suoi grandiosi film, è stato sempre quello di manipolare lo spettatore, mettendolo a conoscenza di cose che i protagonisti non sanno. 

Giocando insomma, con l'ansia di giustizia dello spettatore, ed esasperandone l'attesa. Senza sovvertirla mai, nei valori morali di riferimento. 

Mi sembra invece che se proprio si vuole trovare un capostipite di questo geniale e terribile rovesciamento morale, esso vada cercato in Stanley Kubrick e nel suo Arancia Meccanica (1971), tratto dal romanzo di Anthony Burgess. 

In quel film, infatti, per la prima volta, viene completamente rovesciato il senso morale dello spettatore, il quale - seguendo le atroci scorribande di Alex e della sua banda - è condotto per mano, prima a simpatizzare con il contesto (Alex è un delinquente glamour, un vero dandy, dai gusti raffinati, che si esalta con Beethoven e che pratica l'ultra violenza gratuita come fosse arte) - e poi a schierarsi decisamente con lui (con un omicida efferato, un violentatore, un sadico), quando il sistema, attraverso La cura Ludovico, lo trasforma in un docile agnello che prende calci e non li restituisce perché non può. 

Quando nel finale del film si intuisce che Alex è 'guarito' dalla cura, ed è tornato quello di prima, il suo ghigno efferato ha conquistato definitivamente lo spettatore.  Tutti, nessuno escluso, siamo felici che Alex sia diventato la bestia d'uomo che era prima. 

Nessuno era arrivato a tanto, e con tale esemplare chiarezza enunciativa.  Arancia Meccanica per la prima volta scoperchiava il cuore nero degli spettatori, e li costringeva, senza più filtri, a guardarvi per bene dentro. 

Fabrizio Falconi




07/11/15

"Detestavo il mondo intero, in blocco" - Una lettera di Francois Truffaut.





A Helen Scott



                                                                                              Parigi, 13 marzo 1962



Va bene, sono un porco. Ma in queste ultime settimane non le ho più scritto perché i miei pasticci familiari iniziavano ad essere troppo piccanti per gli "amici comuni" (...)
Per quanto la riguarda, sapevo di non dover temere da parte sua nulla di men che opportuno, e nulla che fosse frutto di cattive intenzioni. Ma nella situazione di estremo nervosismo in cui ero, mi son quasi sorpreso a pentirmi  di averla messa fin dall'inizio a parte di tutto.  Specialmente quando, nelle lettere che lei mi scriveva, trovavo allusioni a notizie uscite dal mio entourage: che un certo giorno ero triste, un altro allegro, ecc... Dalla situazione di tensione in cui mi trovo ormai da mesi alla mania di persecuzione il passo è breve.  Detestavo il mondo intero, in blocco. Adesso mi sto progressivamente riconciliando, ma ho ancora nausea di tutto. 
Riconciliato con Madeleine, vado con lei a fare questo viaggio, ma non ne sono affatto entusiasta. In realtà avremmo bisogno di vacanze vere, che ci prenderemo subito dopo. 
Esco da Jules e Jim come da un fallimento umiliante, e non riesco neppure a capire perché. 
Le scriverò ancora domani per gli "affari", questa è una lettera tra amici. Sono molto contento di rivederla presto, e sono anche contento che capiti dopo qualche giorno di sole e di riposo a Mar del Plata e a Rio, che mi permetteranno di comparire davanti a lei con un'aria meno decaduta e meno miserabile. 
mille saluti da

Francois Truffaut