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26/06/22

Qual è la più bella lettera sulla Guerra? Quella di Tiziano Terzani a Oriana Fallaci: "Il Sultano e San Francesco", da rileggere oggi

 


Sono state due grandi personalità italiane, Oriana Fallaci e Tiziano Terzani: condivisero un mestiere difficile: quello dell'inviato e dell'inviato di guerra. Parteciparono entrambi, come testimoni, ad alcuni tra gli eventi più distruttivi e violenti del Novecento, passarono indenni attraverso esperienze pericolose, rischi enormi, amori totalizzanti.  

Eppure se cercate su Google, non troverete mai nessuna foto che li ritrae insieme. Anche se erano tutti e due toscani e tutti due nati nella stessa città - Firenze - e a pochi anni di distanza una dall'altro (la Fallaci nel 1929, Terzani nel 1938). 
Pur avendo condiviso così tanto, avevano idee molto diverse, che si radicalizzarono dopo gli attentati alle Torri Gemelle di New York. La Fallaci, che viveva ormai negli USA, scrisse un violento libello, "La rabbia e l'orgoglio" che esprimeva duramente la condanna all'estremismo islamico e alle sue connivenze. E difendeva orgogliosamente le democrazie dell'Occidente, pur con tutte le sue distorsioni. Tiziano Terzani, neanche un mese dopo l'attentato, le scrisse questa lettera, una delle più alte testimonianze di quel periodo, ma più in generale una potente riflessione sulla guerra, sul "legno storto dell'umanità" e sulla pacificazione interiore e esteriore. Da rileggere interamente oggi.  

Il Sultano e San Francesco, la lettera di Tiziano Terzani a Oriana Fallaci

Oriana, dalla finestra di una casa poco lontana da quella in cui anche tu sei nata, guardo le lame austere ed eleganti dei cipressi contro il cielo e ti penso a guardare, dalle tue finestre a New York, il panorama dei grattacieli da cui ora mancano le Torri Gemelle. Mi torna in mente un pomeriggio di tanti, tantissimi anni fa quando assieme facemmo una lunga passeggiata per le stradine di questi nostri colli argentati dagli ulivi. Io mi affacciavo, piccolo, alla professione nella quale tu eri già grande e tu proponesti di scambiarci delle «Lettere da due mondi diversi»: io dalla Cina dell’ immediato dopo-Mao in cui andavo a vivere, tu dall’America. Per colpa mia non lo facemmo. Ma è in nome di quella tua generosa offerta di allora, e non certo per coinvolgerti ora in una corrispondenza che tutti e due vogliamo evitare, che mi permetto di scriverti. Davvero mai come ora, pur vivendo sullo stesso pianeta, ho l’ impressione di stare in un mondo assolutamente diverso dal tuo. Ti scrivo anche – e pubblicamente per questo – per non far sentire troppo soli quei lettori che forse, come me, sono rimasti sbigottiti dalle tue invettive, quasi come dal crollo delle due Torri. Là morivano migliaia di persone e con loro il nostro senso di sicurezza; nelle tue parole sembra morire il meglio della testa umana – la ragione; il meglio del cuore – la compassione. Il tuo sfogo mi ha colpito, ferito e mi ha fatto pensare a Karl Kraus. «Chi ha qualcosa da dire si faccia avanti e taccia», scrisse, disperato dal fatto che, dinanzi all’ indicibile orrore della Prima Guerra Mondiale, alla gente non si fosse paralizzata la lingua. Al contrario, gli si era sciolta, creando tutto attorno un assurdo e confondente chiacchierio. Tacere per Kraus significava riprendere fiato, cercare le parole giuste, riflettere prima di esprimersi. Lui usò di quel consapevole silenzio per scrivere Gli ultimi giorni dell’ umanità, un’ opera che sembra essere ancora di un’ inquietante attualità. Pensare quel che pensi e scriverlo è un tuo diritto. Il problema è però che, grazie alla tua notorietà, la tua brillante lezione di intolleranza arriva ora anche nelle scuole, influenza tanti giovani e questo mi inquieta. Il nostro di ora è un momento di straordinaria importanza.

L’ orrore indicibile è appena cominciato, ma è ancora possibile fermarlo facendo di questo momento una grande occasione di ripensamento. È un momento anche di enorme responsabilità perché certe concitate parole, pronunciate dalle lingue sciolte, servono solo a risvegliare i nostri istinti più bassi, ad aizzare la bestia dell’ odio che dorme in ognuno di noi ed a provocare quella cecità delle passioni che rende pensabile ogni misfatto e permette, a noi come ai nostri nemici, il suicidarsi e l’ uccidere. «Conquistare le passioni mi pare di gran lunga più difficile che conquistare il mondo con la forza delle armi. Ho ancora un difficile cammino dinanzi a me», scriveva nel 1925 quella bell’anima di Gandhi. Ed aggiungeva: «Finché l’ uomo non si metterà di sua volontà all’ultimo posto fra le altre creature sulla terra, non ci sarà per lui alcuna salvezza». E tu, Oriana, mettendoti al primo posto di questa crociata contro tutti quelli che non sono come te o che ti sono antipatici, credi davvero di offrirci salvezza? La salvezza non è nella tua rabbia accalorata, né nella calcolata campagna militare chiamata, tanto per rendercela più accettabile, «Libertà duratura». O tu pensi davvero che la violenza sia il miglior modo per sconfiggere la violenza? Da che mondo è mondo non c’ è stata ancora la guerra che ha messo fine a tutte le guerre. Non lo sarà nemmeno questa. Quel che ci sta succedendo è nuovo. Il mondo ci sta cambiando attorno. Cambiamo allora il nostro modo di pensare, il nostro modo di stare al mondo. È una grande occasione. Non perdiamola: rimettiamo in discussione tutto, immaginiamoci un futuro diverso da quello che ci illudevamo d’ aver davanti prima dell’11 settembre e soprattutto non arrendiamoci alla inevitabilità di nulla, tanto meno all’ inevitabilità della guerra come strumento di giustizia o semplicemente di vendetta. Le guerre sono tutte terribili. Il moderno affinarsi delle tecniche di distruzione e di morte le rendono sempre più tali. Pensiamoci bene: se noi siamo disposti a combattere la guerra attuale con ogni arma a nostra disposizione, compresa quella atomica, come propone il Segretario alla Difesa americano, allora dobbiamo aspettarci che anche i nostri nemici, chiunque essi siano, saranno ancor più determinati di prima a fare lo stesso, ad agire senza regole, senza il rispetto di nessun principio. Se alla violenza del loro attacco alle Torri Gemelle noi risponderemo con una ancor più terribile violenza – ora in Afghanistan, poi in Iraq, poi chi sa dove -, alla nostra ne seguirà necessariamente una loro ancora più orribile e poi un’ altra nostra e così via. Perché non fermarsi prima? Abbiamo perso la misura di chi siamo, il senso di quanto fragile ed interconnesso sia il mondo in cui viviamo, e ci illudiamo di poter usare una dose, magari «intelligente», di violenza per mettere fine alla terribile violenza altrui. Cambiamo illusione e, tanto per cominciare, chiediamo a chi fra di noi dispone di armi nucleari, armi chimiche e armi batteriologiche – Stati Uniti in testa – d’ impegnarsi solennemente con tutta l’ umanità a non usarle mai per primo, invece di ricordarcene minacciosamente la disponibilità. Sarebbe un primo passo in una nuova direzione. Non solo questo darebbe a chi lo fa un vantaggio morale – di per sé un’ arma importante per il futuro -, ma potrebbe anche disinnescare l’ orrore indicibile ora attivato dalla reazione a catena della vendetta.

In questi giorni ho ripreso in mano un bellissimo libro (peccato che non sia ancora in italiano) di un vecchio amico, uscito due anni fa in Germania. Il libro si intitola Die Kunst, nicht regiert zu werden: ethische Politik von Sokrates bis Mozart (L’ arte di non essere governati: l’ etica politica da Socrate a Mozart). L’ autore è Ekkehart Krippendorff, che ha insegnato per anni a Bologna prima di tornare all’Università di Berlino. La affascinante tesi di Krippendorff è che la politica, nella sua espressione più nobile, nasce dal superamento della vendetta e che la cultura occidentale ha le sue radici più profonde in alcuni miti, come quello di Caino e quello delle Erinni, intesi da sempre a ricordare all’uomo la necessità di rompere il circolo vizioso della vendetta per dare origine alla civiltà. Caino uccide il fratello, ma Dio impedisce agli uomini di vendicare Abele e, dopo aver marchiato Caino – un marchio che è anche una protezione -, lo condanna all’esilio dove quello fonda la prima città. La vendetta non è degli uomini, spetta a Dio. Secondo Krippendorff il teatro, da Eschilo a Shakespeare, ha avuto una funzione determinante nella formazione dell’ uomo occidentale perché col suo mettere sulla scena tutti i protagonisti di un conflitto, ognuno col suo punto di vista, i suoi ripensamenti e le sue possibili scelte di azione, il teatro è servito a far riflettere sul senso delle passioni e sulla inutilità della violenza che non raggiunge mai il suo fine. Purtroppo, oggi, sul palcoscenico del mondo noi occidentali siamo insieme i soli protagonisti ed i soli spettatori, e così, attraverso le nostre televisioni ed i nostri giornali, non ascoltiamo che le nostre ragioni, non proviamo che il nostro dolore. A te, Oriana, i kamikaze non interessano. A me tanto invece. Ho passato giorni in Sri Lanka con alcuni giovani delle «Tigri Tamil», votati al suicidio. Mi interessano i giovani palestinesi di «Hamas» che si fanno saltare in aria nelle pizzerie israeliane. Un po’ di pietà sarebbe forse venuta anche a te se in Giappone, sull’isola di Kyushu, tu avessi visitato Chiran, il centro dove i primi kamikaze vennero addestrati e tu avessi letto le parole, a volte poetiche e tristissime, scritte segretamente prima di andare, riluttanti, a morire per la bandiera e per l’ Imperatore. I kamikaze mi interessano perché vorrei capire che cosa li rende così disposti a quell’innaturale atto che è il suicidio e che cosa potrebbe fermarli. Quelli di noi a cui i figli – fortunatamente – sono nati, si preoccupano oggi moltissimo di vederli bruciare nella fiammata di questo nuovo, dilagante tipo di violenza di cui l’ecatombe nelle Torri Gemelle potrebbe essere solo un episodio. Non si tratta di giustificare, di condonare, ma di capire. Capire, perché io sono convinto che il problema del terrorismo non si risolverà uccidendo i terroristi, ma eliminando le ragioni che li rendono tali. Niente nella storia umana è semplice da spiegare e fra un fatto ed un altro c’è raramente una correlazione diretta e precisa. Ogni evento, anche della nostra vita, è il risultato di migliaia di cause che producono, assieme a quell’evento, altre migliaia di effetti, che a loro volta sono le cause di altre migliaia di effetti.

L’attacco alle Torri Gemelle è uno di questi eventi: il risultato di tanti e complessi fatti antecedenti. Certo non è l’atto di «una guerra di religione» degli estremisti musulmani per la conquista delle nostre anime, una Crociata alla rovescia, come la chiami tu, Oriana. Non è neppure «un attacco alla libertà ed alla democrazia occidentale», come vorrebbe la semplicistica formula ora usata dai politici. Un vecchio accademico dell’ Università di Berkeley, un uomo certo non sospetto di anti-americanismo o di simpatie sinistrorse dà di questa storia una interpretazione completamente diversa. «Gli assassini suicidi dell’11 settembre non hanno attaccato l’America: hanno attaccato la politica estera americana», scrive Chalmers Johnson nel numero di The Nation del 15 ottobre. Per lui, autore di vari libri – l’ultimo, Blowback, contraccolpo, uscito l’ anno scorso (in Italia edito da Garzanti ndr) ha del profetico – si tratterebbe appunto di un ennesimo «contraccolpo» al fatto che, nonostante la fine della Guerra Fredda e lo sfasciarsi dell’ Unione Sovietica, gli Stati Uniti hanno mantenuto intatta la loro rete imperiale di circa 800 installazioni militari nel mondo. Con una analisi che al tempo della Guerra Fredda sarebbe parsa il prodotto della disinformazione del Kgb, Chalmers Johnson fa l’ elenco di tutti gli imbrogli, complotti, colpi di Stato, delle persecuzioni, degli assassinii e degli interventi a favore di regimi dittatoriali e corrotti nei quali gli Stati Uniti sono stati apertamente o clandestinamente coinvolti in America Latina, in Africa, in Asia e nel Medio Oriente dalla fine della Seconda Guerra Mondiale ad oggi. Il «contraccolpo» dell’ attacco alle Torri Gemelle ed al Pentagono avrebbe a che fare con tutta una serie di fatti di questo tipo: fatti che vanno dal colpo di Stato ispirato dalla Cia contro Mossadeq nel 1953, seguito dall’installazione dello Shah in Iran, alla Guerra del Golfo, con la conseguente permanenza delle truppe americane nella penisola araba, in particolare l’ Arabia Saudita dove sono i luoghi sacri dell’ Islam. Secondo Johnson sarebbe stata questa politica americana «a convincere tanta brava gente in tutto il mondo islamico che gli Stati Uniti sono un implacabile nemico». Così si spiegherebbe il virulento anti-americanismo diffuso nel mondo musulmano e che oggi tanto sorprende gli Stati Uniti ed i loro alleati. Esatta o meno che sia l’ analisi di Chalmers Johnson, è evidente che al fondo di tutti i problemi odierni degli americani e nostri nel Medio Oriente c’ è, a parte la questione israeliano-palestinese, la ossessiva preoccupazione occidentale di far restare nelle mani di regimi «amici», qualunque essi fossero, le riserve petrolifere della regione. Questa è stata la trappola. L’ occasione per uscirne è ora. Perché non rivediamo la nostra dipendenza economica dal petrolio? Perché non studiamo davvero, come avremmo potuto già fare da una ventina d’ anni, tutte le possibili fonti alternative di energia? Ci eviteremmo così d’ essere coinvolti nel Golfo con regimi non meno repressivi ed odiosi dei talebani; ci eviteremmo i sempre più disastrosi «contraccolpi» che ci verranno sferrati dagli oppositori a quei regimi, e potremmo comunque contribuire a mantenere un migliore equilibrio ecologico sul pianeta. Magari salviamo così anche l’ Alaska che proprio un paio di mesi fa è stata aperta ai trivellatori, guarda caso dal presidente Bush, le cui radici politiche – tutti lo sanno – sono fra i petrolieri.di Khaled Hosseini.

A proposito del petrolio, Oriana, sono certo che anche tu avrai notato come, con tutto quel che si sta scrivendo e dicendo sull’Afghanistan, pochissimi fanno notare che il grande interesse per questo paese è legato al fatto d’ essere il passaggio obbligato di qualsiasi conduttura intesa a portare le immense risorse di metano e petrolio dell’ Asia Centrale (vale a dire di quelle repubbliche ex-sovietiche ora tutte, improvvisamente, alleate con gli Stati Uniti) verso il Pakistan, l’ India e da lì nei paesi del Sud Est Asiatico. Il tutto senza dover passare dall’Iran. Nessuno in questi giorni ha ricordato che, ancora nel 1997, due delegazioni degli «orribili» talebani sono state ricevute a Washington (anche al Dipartimento di Stato) per trattare di questa faccenda e che una grande azienda petrolifera americana, la Unocal, con la consulenza niente di meno che di Henry Kissinger, si è impegnata col Turkmenistan a costruire quell’oleodotto attraverso l’ Afghanistan. È dunque possibile che, dietro i discorsi sulla necessità di proteggere la libertà e la democrazia, l’ imminente attacco contro l’ Afghanistan nasconda anche altre considerazioni meno altisonanti, ma non meno determinanti. È per questo che nell’America stessa alcuni intellettuali cominciano a preoccuparsi che la combinazione fra gli interessi dell’ industria petrolifera con quelli dell’ industria bellica – combinazione ora prominentemente rappresentata nella compagine al potere a Washington – finisca per determinare in un unico senso le future scelte politiche americane nel mondo e per limitare all’interno del paese, in ragione dell’ emergenza anti-terrorismo, i margini di quelle straordinarie libertà che rendono l’ America così particolare. Il fatto che un giornalista televisivo americano sia stato redarguito dal pulpito della Casa Bianca per essersi chiesto se l’ aggettivo «codardi», usato da Bush, fosse appropriato per i terroristi-suicidi, così come la censura di certi programmi e l’ allontanamento da alcuni giornali, di collaboratori giudicati non ortodossi, hanno aumentato queste preoccupazioni. L’ aver diviso il mondo in maniera – mi pare – «talebana», fra «quelli che stanno con noi e quelli contro di noi», crea ovviamente i presupposti per quel clima da caccia alle streghe di cui l’ America ha già sofferto negli anni Cinquanta col maccartismo, quando tanti intellettuali, funzionari di Stato ed accademici, ingiustamente accusati di essere comunisti o loro simpatizzanti, vennero perseguitati, processati e in moltissimi casi lasciati senza lavoro.

Il tuo attacco, Oriana – anche a colpi di sputo – alle «cicale» ed agli intellettuali «del dubbio» va in quello stesso senso. Dubitare è una funzione essenziale del pensiero; il dubbio è il fondo della nostra cultura. Voler togliere il dubbio dalle nostre teste è come volere togliere l’ aria ai nostri polmoni. Io non pretendo affatto d’ aver risposte chiare e precise ai problemi del mondo (per questo non faccio il politico), ma penso sia utile che mi si lasci dubitare delle risposte altrui e mi si lasci porre delle oneste domande. In questi tempi di guerra non deve essere un crimine parlare di pace. Purtroppo anche qui da noi, specie nel mondo «ufficiale» della politica e dell’ establishment mediatico, c’ è stata una disperante corsa alla ortodossia. È come se l’ America ci mettesse già paura. Capita così di sentir dire in televisione a un post-comunista in odore di una qualche carica nel suo partito, che il soldato Ryan è un importante simbolo di quell’America che per due volte ci ha salvato. Ma non c’ era anche lui nelle marce contro la guerra americana in Vietnam? Per i politici – me ne rendo conto – è un momento difficilissimo. Li capisco e capisco ancor più l’ angoscia di qualcuno che, avendo preso la via del potere come una scorciatoia per risolvere un piccolo conflitto di interessi terreni si ritrova ora alle prese con un enorme conflitto di interessi divini, una guerra di civiltà combattuta in nome di Iddio e di Allah. No. Non li invidio, i politici. Siamo fortunati noi, Oriana. Abbiamo poco da decidere e non trovandoci in mezzo ai flutti del fiume, abbiamo il privilegio di poter stare sulla riva a guardare la corrente. Ma questo ci impone anche grandi responsabilità come quella, non facile, di andare dietro alla verità e di dedicarci soprattutto «a creare campi di comprensione, invece che campi di battaglia», come ha scritto Edward Said, professore di origine palestinese ora alla Columbia University, in un saggio sul ruolo degli intellettuali uscito proprio una settimana prima degli attentati in America. Il nostro mestiere consiste anche nel semplificare quel che è complicato. Ma non si può esagerare, Oriana, presentando Arafat come la quintessenza della doppiezza e del terrorismo ed indicando le comunità di immigrati musulmani da noi come incubatrici di terroristi. Le tue argomentazioni verranno ora usate nelle scuole contro quelle buoniste, da libro Cuore, ma tu credi che gli italiani di domani, educati a questo semplicismo intollerante, saranno migliori? Non sarebbe invece meglio che imparassero, a lezione di religione, anche che cosa è l’ Islam? Che a lezione di letteratura leggessero anche Rumi o il da te disprezzato Omar Kayan? Non sarebbe meglio che ci fossero quelli che studiano l’ arabo, oltre ai tanti che già studiano l’ inglese e magari il giapponese? Lo sai che al ministero degli Esteri di questo nostro paese affacciato sul Mediterraneo e sul mondo musulmano, ci sono solo due funzionari che parlano arabo? Uno attualmente è, come capita da noi, console ad Adelaide in Australia. Mi frulla in testa una frase di Toynbee: «Le opere di artisti e letterati hanno vita più lunga delle gesta di soldati, di statisti e mercanti. I poeti ed i filosofi vanno più in là degli storici. Ma i santi e i profeti valgono di più di tutti gli altri messi assieme». Dove sono oggi i santi ed i profeti? Davvero, ce ne vorrebbe almeno uno! Ci rivorrebbe un San Francesco. Anche i suoi erano tempi di crociate, ma il suo interesse era per «gli altri», per quelli contro i quali combattevano i crociati. Fece di tutto per andarli a trovare. Ci provò una prima volta, ma la nave su cui viaggiava naufragò e lui si salvò a malapena. Ci provò una seconda volta, ma si ammalò prima di arrivare e tornò indietro. Finalmente, nel corso della quinta crociata, durante l’ assedio di Damietta in Egitto, amareggiato dal comportamento dei crociati («vide il male ed il peccato»), sconvolto da una spaventosa battaglia di cui aveva visto le vittime, San Francesco attraversò le linee del fronte. Venne catturato, incatenato e portato al cospetto del Sultano. Peccato che non c’ era ancora la Cnn – era il 1219 – perché sarebbe interessantissimo rivedere oggi il filmato di quell’incontro. Certo fu particolarissimo perché, dopo una chiacchierata che probabilmente andò avanti nella notte, al mattino il Sultano lasciò che San Francesco tornasse, incolume, all’accampamento dei crociati. Mi diverte pensare che l’ uno disse all’altro le sue ragioni, che San Francesco parlò di Cristo, che il Sultano lesse passi del Corano e che alla fine si trovarono d’ accordo sul messaggio che il poverello di Assisi ripeteva ovunque: «Ama il prossimo tuo come te stesso». Mi diverte anche immaginare che, siccome il frate sapeva ridere come predicare, fra i due non ci fu aggressività e che si lasciarono di buon umore sapendo che comunque non potevano fermare la storia. Ma oggi? Non fermarla può voler dire farla finire. Ti ricordi, Oriana, Padre Balducci che predicava a Firenze quando noi eravamo ragazzi? Riguardo all’orrore dell’ olocausto atomico pose una bella domanda: «La sindrome da fine del mondo, l’ alternativa fra essere e non essere, hanno fatto diventare l’ uomo più umano?». A guardarsi intorno la risposta mi pare debba essere «No». Ma non possiamo rinunciare alla speranza. «Mi dica, che cosa spinge l’ uomo alla guerra?», chiedeva Albert Einstein nel 1932 in una lettera a Sigmund Freud. «È possibile dirigere l’ evoluzione psichica dell’ uomo in modo che egli diventi più capace di resistere alla psicosi dell’ odio e della distruzione?» Freud si prese due mesi per rispondergli. La sua conclusione fu che c’ era da sperare: l’ influsso di due fattori – un atteggiamento più civile, ed il giustificato timore degli effetti di una guerra futura – avrebbe dovuto mettere fine alle guerre in un prossimo avvenire. Giusto in tempo la morte risparmiò a Freud gli orrori della Seconda Guerra Mondiale. Non li risparmiò invece ad Einstein, che divenne però sempre più convinto della necessità del pacifismo. Nel 1955, poco prima di morire, dalla sua casetta di Princeton in America dove aveva trovato rifugio, rivolse all’ umanità un ultimo appello per la sua sopravvivenza: «Ricordatevi che siete uomini e dimenticatevi tutto il resto».

Per difendersi, Oriana, non c’ è bisogno di offendere (penso ai tuoi sputi ed ai tuoi calci). Per proteggersi non c’ è bisogno d’ ammazzare. Ed anche in questo possono esserci delle giuste eccezioni. M’ è sempre piaciuta nei Jataka, le storie delle vite precedenti di Buddha, quella in cui persino lui, epitome della non violenza, in una incarnazione anteriore uccide. Viaggia su una barca assieme ad altre 500 persone. Lui, che ha già i poteri della preveggenza, «vede» che uno dei passeggeri, un brigante, sta per ammazzare tutti e derubarli e lui lo previene buttandolo nell’acqua ad affogare per salvare gli altri. Essere contro la pena di morte non vuol dire essere contro la pena in genere ed in favore della libertà di tutti i delinquenti. Ma per punire con giustizia occorre il rispetto di certe regole che sono il frutto dell’ incivilimento, occorre il convincimento della ragione, occorrono delle prove. I gerarchi nazisti furono portati dinanzi al Tribunale di Norimberga; quelli giapponesi responsabili di tutte le atrocità commesse in Asia, furono portati dinanzi al Tribunale di Tokio prima di essere, gli uni e gli altri, dovutamente impiccati. Le prove contro ognuno di loro erano schiaccianti. Ma quelle contro Osama Bin Laden? «Noi abbiamo tutte le prove contro Warren Anderson, presidente della Union Carbide. Aspettiamo che ce lo estradiate», scrive in questi giorni dall’India agli americani, ovviamente a mo’ di provocazione, Arundhati Roy, la scrittrice de Il Dio delle piccole cose: una come te, Oriana, famosa e contestata, amata ed odiata. Come te, sempre pronta a cominciare una rissa, la Roy ha usato della discussione mondiale su Osama Bin Laden per chiedere che venga portato dinanzi ad un tribunale indiano il presidente americano della Union Carbide responsabile dell’ esplosione nel 1984 nella fabbrica chimica di Bhopal in India che fece 16.000 morti. Un terrorista anche lui? Dal punto di vista di quei morti forse sì. L’ immagine del terrorista che ora ci viene additata come quella del «nemico» da abbattere è il miliardario saudita che, da una tana nelle montagne dell’ Afghanistan, ordina l’ attacco alle Torri Gemelle; è l’ ingegnere-pilota, islamista fanatico, che in nome di Allah uccide se stesso e migliaia di innocenti; è il ragazzo palestinese che con una borsetta imbottita di dinamite si fa esplodere in mezzo ad una folla. Dobbiamo però accettare che per altri il «terrorista» possa essere l’ uomo d’ affari che arriva in un paese povero del Terzo Mondo con nella borsetta non una bomba, ma i piani per la costruzione di una fabbrica chimica che, a causa di rischi di esplosione ed inquinamento, non potrebbe mai essere costruita in un paese ricco del Primo Mondo.

E la centrale nucleare che fa ammalare di cancro la gente che ci vive vicino? E la diga che disloca decine di migliaia di famiglie? O semplicemente la costruzione di tante piccole industrie che cementificano risaie secolari, trasformando migliaia di contadini in operai per produrre scarpe da ginnastica o radioline, fino al giorno in cui è più conveniente portare quelle lavorazioni altrove e le fabbriche chiudono, gli operai restano senza lavoro e non essendoci più i campi per far crescere il riso, muoiono di fame? Questo non è relativismo. Voglio solo dire che il terrorismo, come modo di usare la violenza, può esprimersi in varie forme, a volte anche economiche, e che sarà difficile arrivare ad una definizione comune del nemico da debellare. I governi occidentali oggi sono uniti nell’essere a fianco degli Stati Uniti; pretendono di sapere esattamente chi sono i terroristi e come vanno combattuti. Molto meno convinti però sembrano i cittadini dei vari paesi. Per il momento non ci sono state in Europa dimostrazioni di massa per la pace; ma il senso del disagio è diffuso così come è diffusa la confusione su quel che si debba volere al posto della guerra. «Dateci qualcosa di più carino del capitalismo», diceva il cartello di un dimostrante in Germania. «Un mondo giusto non è mai NATO», c’ era scritto sullo striscione di alcuni giovani che marciavano giorni fa a Bologna. Già. Un mondo «più giusto» è forse quel che noi tutti, ora più che mai, potremmo pretendere. Un mondo in cui chi ha tanto si preoccupa di chi non ha nulla; un mondo retto da principi di legalità ed ispirato ad un po’ più di moralità.

La vastissima, composita alleanza che Washington sta mettendo in piedi, rovesciando vecchi schieramenti e riavvicinando paesi e personaggi che erano stati messi alla gogna, solo perché ora tornano comodi, è solo l’ ennesimo esempio di quel cinismo politico che oggi alimenta il terrorismo in certe aree del mondo e scoraggia tanta brava gente nei nostri paesi. Gli Stati Uniti, per avere la maggiore copertura possibile e per dare alla guerra contro il terrorismo un crisma di legalità internazionale, hanno coinvolto le Nazioni Unite, eppure gli Stati Uniti stessi rimangono il paese più reticente a pagare le proprie quote al Palazzo di Vetro, sono il paese che non ha ancora ratificato né il trattato costitutivo della Corte Internazionale di Giustizia, né il trattato per la messa al bando delle mine anti-uomo e tanto meno quello di Kyoto sulle mutazioni climatiche. L’ interesse nazionale americano ha la meglio su qualsiasi altro principio. Per questo ora Washington riscopre l’ utilità del Pakistan, prima tenuto a distanza per il suo regime militare e punito con sanzioni economiche a causa dei suoi esperimenti nucleari; per questo la Cia sarà presto autorizzata di nuovo ad assoldare mafiosi e gangster cui affidare i «lavoretti sporchi» di liquidare qua e là nel mondo le persone che la Cia stessa metterà sulla sua lista nera. Eppure un giorno la politica dovrà ricongiungersi con l’ etica se vorremo vivere in un mondo migliore: migliore in Asia come in Africa, a Timbuctu come a Firenze. A proposito, Oriana. Anche a me ogni volta che, come ora, ci passo, questa città mi fa male e mi intristisce. Tutto è cambiato, tutto è involgarito. Ma la colpa non è dell’ Islam o degli immigrati che ci si sono installati. Non son loro che han fatto di Firenze una città bottegaia, prostituita al turismo! È successo dappertutto. Firenze era bella quando era più piccola e più povera. Ora è un obbrobrio, ma non perché i musulmani si attendano in Piazza del Duomo, perché i filippini si riuniscono il giovedì in Piazza Santa Maria Novella e gli albanesi ogni giorno attorno alla stazione. È così perché anche Firenze s’ è «globalizzata», perché non ha resistito all’ assalto di quella forza che, fino ad ieri, pareva irresistibile: la forza del mercato.

Nel giro di due anni da una bella strada del centro in cui mi piaceva andare a spasso è scomparsa una libreria storica, un vecchio bar, una tradizionalissima farmacia ed un negozio di musica. Per far posto a che? A tanti negozi di moda. Credimi, anch’ io non mi ci ritrovo più. Per questo sto, anch’ io ritirato, in una sorta di baita nell’ Himalaya indiana dinanzi alle più divine montagne del mondo. Passo ore, da solo, a guardarle, lì maestose ed immobili, simbolo della più grande stabilità, eppure anche loro, col passare delle ore, continuamente diverse e impermanenti come tutto in questo mondo. La natura è una grande maestra, Oriana, e bisogna ogni tanto tornarci a prendere lezione. Tornaci anche tu. Chiusa nella scatola di un appartamento dentro la scatola di un grattacielo, con dinanzi altri grattacieli pieni di gente inscatolata, finirai per sentirti sola davvero; sentirai la tua esistenza come un accidente e non come parte di un tutto molto, molto più grande di tutte le torri che hai davanti e di quelle che non ci sono più. Guarda un filo d’ erba al vento e sentiti come lui. Ti passerà anche la rabbia. Ti saluto, Oriana e ti auguro di tutto cuore di trovare pace. Perché se quella non è dentro di noi non sarà mai da nessuna parte.

Tiziano Terzani

8 ottobre 2001

31/08/21

Le teorie negazioniste e cospirazioniste sul Covid? Arrivano da molto lontano, dall'11 settembre

 


Dalle elezioni al COVID, le cospirazioni dell'11 settembre gettano una lunga ombra 

di DAVID KLEPPER 

Mentre gli attacchi dell'11 settembre hanno unito gran parte dell'America nel dolore e nella rabbia, le teorie della cospirazione su ciò che è accaduto quel giorno hanno scoperto un pozzo di sfiducia. 

Vent'anni dopo, lo scetticismo e il sospetto rivelati per la prima volta dalle affermazioni secondo cui l'11 settembre era un affare interno si sono metastatizzati. Sono stati diffusi da Internet e nutriti da esperti e politici come Donald Trump. È emersa una bufala dopo l'altra, una più bizzarra dell'altra. C'è il birtherismo, il pizzagate e il QAnon. 

Gli esperti affermano che mentre le teorie del complotto non sono una novità in America, Internet ha permesso loro di diffondersi più lontano e più velocemente che mai. 

Korey Rowe ha compiuto viaggi in Iraq e Afghanistan ed è tornato a casa negli Stati Uniti nel 2004 traumatizzato e disilluso. 

Le sue esperienze all'estero e le fastidiose domande sull'11 settembre 2001 lo convinsero che i leader americani stavano mentendo su ciò che accadde quel giorno e sulle guerre che seguirono. 

Il risultato è stato "Loose Change", un documentario del 2005 prodotto da Rowe e dal suo amico d'infanzia, Dylan Avery, che ha reso popolare la teoria secondo cui il governo degli Stati Uniti era dietro l'11 settembre

Uno dei primi successi virali di Internet ancora giovane, ha incoraggiato milioni di persone a mettere in discussione ciò che è stato detto loro. 

Mentre gli attacchi hanno unito molti americani nel dolore e nella rabbia, "Loose Change" ha parlato ai disamorati. "È stato il parafulmine a catturare il fulmine", ricorda la Rowe. 

Aveva sperato che il film portasse a una sobria rivalutazione degli attacchi. Rowe non si pente del film e continua a mettere in dubbio gli eventi dell'11 settembre, ma afferma di essere profondamente turbato da ciò che le teorie del complotto sull'11 settembre hanno rivelato sulla natura corrosiva della disinformazione su Internet.

"Guarda dov'è finito: ci sono persone che hanno preso d'assalto il Campidoglio perché credono che le elezioni siano state una frode. Ci sono persone che non verranno vaccinate e muoiono negli ospedali", dice Rowe. "Siamo arrivati ​​al punto in cui le informazioni stanno effettivamente uccidendo le persone".

C'erano, ovviamente, teorie del complotto prima che avvenisse l'11 settembre: l'assassinio di John F. Kennedy, lo sbarco sulla luna, un presunto incidente UFO del 1947 a Roswell, nel New Mexico. 

E l'interesse del paese per le teorie marginali era in aumento prima dell'11 settembre, esemplificato dallo spettacolo degli anni '90 "The X-Files", con i suoi slogan "La verità è là fuori" e "non fidarsi di nessuno". 

Ma è stato l'11 settembre che ha annunciato la nostra attuale era di sospetto e incredulità e ha rivelato la capacità di Internet di catalizzare le teorie del complotto. 

"Le teorie della cospirazione sono sempre state con noi, ed è solo il modo di condividerle che è cambiato", afferma Karen Douglas, professoressa di psicologia all'Università del Kent in Inghilterra che studia perché le persone credono a queste storie. 

"Internet ha reso le teorie del complotto più visibili e facili da condividere che mai. Le persone possono anche trovare molto rapidamente altri che la pensano allo stesso modo, unirsi a gruppi e condividere le proprie opinioni". 

Le teorie della cospirazione sull'attacco e le sue conseguenze hanno anche dato una prima esposizione ad alcune delle stesse persone che spingono bufale e affermazioni infondate su COVID-19, vaccini e le elezioni del 2020, tra cui Alex Jones, l'editore di InfoWars che sostiene Trump, che ha accusato il Stati Uniti di aver pianificato gli attacchi e affermano che la sparatoria di Sandy Hook nel 2012 è stata una bufala. 

Jones è stato un coproduttore della terza edizione di "Loose Change". 

I sondaggi mostrano che la credenza nelle teorie del complotto dell'11 settembre ha raggiunto il picco subito dopo l'attacco, poi si è attenuata. 

Non è sorprendente, secondo Mark Fenster, un professore di giurisprudenza dell'Università della Florida che studia la storia delle teorie del complotto.

Dice che eventi scioccanti e improvvisi spesso generano teorie della cospirazione mentre le persone sono alle prese collettivamente con la loro comprensione. "Un aereo che va a sbattere contro il World Trade Center? Che va a sbattere contro il Pentagono? Sembra roba da film", dice Fenster. "Semplicemente non sembrava un evento reale, ed è quando si verifica un grande evento anomalo come questo che a volte si verificano teorie del complotto". I teorici della cospirazione una volta si affidavano a libri, opuscoli e programmi televisivi a tarda notte per sposare le loro convinzioni. 

Ora usano bacheche come Reddit, pubblicano video su YouTube e conquistano conversioni su Facebook, Twitter o Instagram. 

La prima teoria della cospirazione dell'11 settembre è nata solo poche ore dopo l'attacco, quando un ingegnere informatico americano ha inviato un messaggio via e-mail a un forum su Internet chiedendosi se la distruzione delle torri sembrava una demolizione controllata. 

Vent'anni dopo, una ricerca su YouTube di contenuti relativi all'11 settembre produce milioni di risultati.

Migliaia di video si concentrano su teorie del complotto.

È molto, ma il nonno delle moderne teorie della cospirazione è stato superato dai nuovi arrivati: una ricerca su Google di "teoria della cospirazione dell'11 settembre" trova più di 4 milioni di risultati, mentre una ricerca di "teoria della cospirazione COVID" ne mostra quasi 10 volte tanto. 

Le aziende tecnologiche affermano di fare il possibile per limitare la diffusione di informazioni false sull'11 settembre. YouTube ha aggiunto collegamenti a fonti autorevoli ad alcuni video relativi all'11 settembre. Facebook afferma di aver aggiunto fact check alle bufale virali sull'11 settembre, inclusa quella secondo cui il Pentagono è stato colpito da un missile e non da un aereo.

Le affermazioni fasulle sugli attacchi dell'11 settembre non hanno mai rappresentato la minaccia attribuita alla disinformazione su COVID-19 o alle elezioni statunitensi del 2020. Ma anche i sostenitori delle teorie del complotto sull'11 settembre affermano che le domande su ciò che è accaduto hanno contribuito a creare l'ambiente odierno di sfiducia e ansia

"Il pericolo è che, una volta che hai quella sfiducia nell'autorità e nel governo, la terra è un posto pericoloso in cui stare", dice Matt Campbell, un cittadino britannico il cui fratello è morto nel World Trade Center l'11 settembre. 

Campbell crede che le torri siano crollate dopo una demolizione controllata e sta cercando una nuova inchiesta sulla morte dei suoi fratelli nel Regno Unito

Su larga scala, tale sfiducia alla base di tali convinzioni può diventare pericolosa quando iniziano a dividere una società o quando vengono sfruttate da un leader politico come Donald Trump, afferma Fenster. 

"Di solito succede che le persone che si sentono escluse dal potere sono impegnate in teorie del complotto", dice Fenster. "Quello che è diverso questa volta è che era il partito che era al potere - il partito che aveva la Casa Bianca - che era il principale trasmettitore di teorie cospirative". 

30/01/12

Hans Kung: "La Chiesa è stata troppo debole con Berlusconi."


"Molti italiani si sarebbero aspettati che papa Benedetto XVI condannasse gli abusi fatti durante il governo Berlusconi, e io oggi sarei lieto se la Chiesa adesso fosse molto chiara nel suo sostegno a Monti".

Lo ha detto a Udine il teologo 'critico' e pensatore di fama internazionale Hans Kung, giunto in Friuli per ricevere il Premio Nonino 2012 nell'omonima distilleria di Percoto (Udine). 

"Oggi si vede che tutto questo sistema berlusconiano era amorale e ha condotto l'Italia alla miseria - ha proseguito Kung - ma prima il premier e' stato ricevuto con molti onori in Vaticano". 

"Dunque la Chiesa deve riflettere su cio' che ha fatto in quel periodo - ha aggiunto - sostenendo troppo Berlusconi e quindi rendendosi complice di quel sistema". 

"Dal Papa e dalla Chiesa - ha detto ancora Kung - dovrebbero ora arrivare parole incoraggianti nei confronti di Mario Monti, un uomo onesto che ha un compito difficilissimo, spero che sia coraggioso anche sulle banche e sui loro poteri". 

Il teologo Hans Kung e' il vincitore del 37/a edizione del Premio Nonino. Nel suo intervento, dopo aver ricevuto il riconoscimento dalle mani di Antonio Damasio, ha esortato nazioni e popoli a individuare "nell'epoca della globalizzazione un ethos globale"; il teologo ha anche auspicato un nuovo risorgimento per l'Italia, con "un presidente del Consiglio serio, competente, onesto con un governo non certamente di santi ma di esperti e con un parlamento dove gli onorevoli tornino ad essere onorabili". 

Kung ha parlato della necessita' di onesta' "della chiesa, di Montecitorio, del Vaticano e dell'economia". 

Secondo il pensatore l'economia ha bisogno di una "etica mondiale e, ripetendo le parole pronunciate all'Onu all'indomani dell'11 settembre, ha detto che ogni uomo va trattato umanamente e che nell'ambito del comandamento "quello che non vuoi che venga fatto a te non farlo ad altri" ha auspicato che "ogni nazione si impegni per diffondere una cultura della non violenza, della solidarieta', della tolleranza e della sincerita"'

Di fronte al monito dei politologi che prevedono per questo secolo uno scontro di civilta' bisogna contrapporre "non l'ideale utopico, ma una realistica visione della speranza - ha detto Kung -. Non c'e' pace fra nazioni se non c'e' pace fra le religioni e non c'e' pace fra religioni se no c'e' dialogo e non c'e' dialogo se non un c'e' un modello etico globale". 

Oltre a Kung sono stati conferiti il premio internazionale Nonino 2012, al poeta cinese Yang Lian, e il premio "ad un maestro del nostro tempo" allo storico inglese Michael Burleigh. Il premio Nonino Risit d'Aur 2012 e' andato invece ai contadini degli 'Orti di Gorizia' per il radicchio rosa di Gorizia.

06/09/11

Le vite concitate, il caos, e il senso che non si trova.



Si avvicina la ricorrenza del decennale dell'11 settembre, l'attentato alle Torri Gemelle di New York.  Su La Stampa mi è capitato di leggere l'intervista ad Edward Fine, il celebre sopravvissuto che fu immortalato con la sua valigetta 24 ore negli attimi successivi alla tragedia, diventando di essa un simbolo.

Mi ha colpito questa sua frase: "Prima lavoravo anche quando ero in vacanza, telefonate, computer e non sapevo neanche chi fosse mia moglie. Ora conosco e apprezzo le cose della mia vita che contano."


Questa frase ha ronzato nelle mie orecchie per alcuni giorni, sommandosi a quest'altra, che il grande Woody Allen - sempre più avvitato in una specie di ostentato nichilismo personale - ha rilasciato a 'La Repubblica':

"continuo a girare film in modo forsennato perché se lavoro e sto sul set, non ho tempo di fermarmi. Se mi fermassi mi deprimerei constatando che la vita non ha alcun senso."

E' il problema di molti, oggi.

Molte persone sembrano convinte che il senso della vita non esista, ma non fanno nulla per fermarsi a riflettere.  Temendo, anzi,  che la riflessione corrisponda a un vuoto, ed essendo del tutto terrorizzati da quel vuoto, non fanno altro che rimpinzare la vita di quante più cose possibili, per la maggior parte del tutto inutili.

Sono convinte, più o meno inconsciamente, che questo rappresenti una formidabile protezione da quel vuoto che attira e terrorizza, per l'appunto.

Il problema però è che, dentro esistenze così stipate, così enormemente sovradimensionate,  si pretende di trovare un 'senso' a questa vita.

E' ovvio che nessun senso si può trovare.

Anche perché con esistenze sempre più caotiche, e sempre meno ordinate (nel flusso di cose semplici) è molto molto difficile percepire un senso, a meno che - come sembra oggi diventata 'vulgata' comune - non si teorizzi che il caos stesso, cioè il disordine E' il senso.

Ma l'uomo, che è principalmente - e resta sempre tale - materiale biologico enormemente organizzato, quindi ordinato (ché altrimenti nessuna vita biologica potrebbe esistere)  non può trovare nessun senso nel caos e nel disordine assoluto. 

E' perfino troppo ovvio che il senso - un senso o IL senso - può essere trovato solo se e quando siamo capaci di fermarci, e di creare un vuoto e di abitare quel vuoto, senza lasciarsene spaventare, ascoltarlo, lasciarlo crescere dentro di noi, e sentire se e come ci parla, se e come ha qualcosa da dirci.

Non è un caso che Edward Fine abbia capito soltanto ora quali sono le cose da conoscere e apprezzare nella vita. Solo ora, quando la giostra si è fermata, indipendentemente dalla sua volontà.

Il problema è proprio questo: che spesso ci fermiamo soltanto quando non possiamo farne a meno, per una crisi improvvisa, per una empasse della nostra vita, un lutto, una crisi, la perdita del lavoro.   Soltanto allora siamo costretti a mettere ordine. A comprendere che la vita è - sarebbe - del tutto semplice, e ha - avrebbe - bisogno di molto poco.

La prima cosa da fare dunque è quella di smetterla di dire "ho troppo da fare per farmi domande."  Dovremmo tutti comprendere che le domande - e solo le domande - danno senso all'esistenza.  E che senza mai porsi domande si possono soltanto compiere disastri, nelle proprie vite individuali e in quella collettiva, come la storia dovrebbe averci abbondantemente insegnato.


Fabrizio Falconi

nella foto in testa: Woody Allen alle prese con la pennichella durante le riprese del suo film romano, agosto 2011.