31/03/20

100 film da salvare alla fine del mondo: 59: La mia vita a quattro zampe (Mitt liv som hund) di Lasse Hallström, Svezia, (1985)


Questo blog dedica, ad appuntamenti fissi - ogni lunedì - un catalogo personale dei miei 100 film da salvare "alla fine del mondo". Non saranno ovviamente vere e proprie recensioni, ma un piccolo campionario degli affetti per queste opere che hanno segnato epoche e vite di molti, se non di tutti. 

100 film da salvare alla fine del mondo: 59: La mia vita a quattro zampe (Mitt liv som hund) di Lasse Hallström, Svezia, (1985) 


Io vivo nella possibilità scriveva quasi due secoli fa Emily Dickinson. 

Ci sono due modi di vivere. 

Quello del sentirsi intero a se stesso, di calcolare la possibilità solo come opportunità, e quello del sentirsi realmente e concretamente aperto al mondo, di vivere cioè la possibilità in quanto tale. 

Possibilità è attraversamento del mondo. Con le sue paludi, le sue zone d'ombra, i suoi territori pericolosi, le sue estasi. 

Non è necessario viaggiare, non è necessario esplorare.  E' necessario aprire il cuore. 
Una operazione niente affatto semplice, niente affatto banale.

E' quello che è chiamato a fare il piccolo Ingemar ne La mia vita a quattro zampe (purtroppo titolo italiano infelicissimo, bruttissimo), di Lasse Hallstrom, Golden Globe per il miglior film straniero nel 1988, quando rimane tristemente orfano.  Il quale avrebbe ogni giustificazione per chiudere, barricare il suo cuore e non desiderare più alcuna possibilità. 

Invece Ingemar imparerà a vivere, nonostante tutto. L'istinto di vivere è più forte in lui del dolore e del lutto e della pesantezza apparentemente insostenibile della vita. 

Io vivo nella possibilità. 

E se io non fossi questo, non sarei nemmeno vivo.  E' questa la grande lezione di un film stilisticamente impeccabile. Da vedere e rivedere.


29/03/20

Poesia della Domenica: "La peste" di Fabrizio Falconi







La peste


Non c’è posto, ogni spazio è stato occupato,
ogni fondo di pozzo, ogni bicchiere, ognuno
dei quanti, degli eoni, delle faglie, dei corsi;

la natura ritratta cerca scampo nell’indefinito,
nell’insito e nel contrario: avvelenando i cuori
e i polmoni, rinsavisce chiedendo ascolto.

Nelle trincee assolate cadono le foglie dell’inverno,
il nemico è ovunque e da nessuna parte, si sente
il suo richiamo e poi svanisce insieme alla nebbia

la truppa è stanca, il vento assente, i morti contano
se stessi e si danno appuntamento altrove, dove
la disattenzione non li fulmini come alberi nella radura,

tutto è venuto in un tempo, tutto nel tempo tornerà
alla luce, come una volta, come mai, come sempre.
Tornando a casa, canteranno, e mille bicchieri berranno.


Fabrizio Falconi - inedita 2020 


28/03/20

L'integrale della Omelia pronunciata ieri dal Papa in Piazza San Pietro per l'emergenza da Coronavirus

pubblico qui di seguito il testo dell'Omelia pronunciata ieri sera dal Papa in Piazza San Pietro, nel Momento di Preghiera per l'emergenza del Coronavirus nel mondo, prima di concedere l'Indulgenza Plenaria

«Venuta la sera» (Mc 4,35). Così inizia il Vangelo che abbiamo ascoltato. Da settimane sembra che sia scesa la sera. Fitte tenebre si sono addensate sulle nostre piazze, strade e città; si sono impadronite delle nostre vite riempiendo tutto di un silenzio assordante e di un vuoto desolante, che paralizza ogni cosa al suo passaggio: si sente nell’aria, si avverte nei gesti, lo dicono gli sguardi. Ci siamo ritrovati impauriti e smarriti. Come i discepoli del Vangelo siamo stati presi alla sprovvista da una tempesta inaspettata e furiosa. Ci siamo resi conto di trovarci sulla stessa barca, tutti fragili e disorientati, ma nello stesso tempo importanti e necessari, tutti chiamati a remare insieme, tutti bisognosi di confortarci a vicenda. Su questa barca… ci siamo tutti. Come quei discepoli, che parlano a una sola voce e nell’angoscia dicono: «Siamo perduti» (v. 38), così anche noi ci siamo accorti che non possiamo andare avanti ciascuno per conto suo, ma solo insieme.
È facile ritrovarci in questo racconto. Quello che risulta difficile è capire l’atteggiamento di Gesù. Mentre i discepoli sono naturalmente allarmati e disperati, Egli sta a poppa, nella parte della barca che per prima va a fondo. E che cosa fa? Nonostante il trambusto, dorme sereno, fiducioso nel Padre – è l’unica volta in cui nel Vangelo vediamo Gesù che dorme –. Quando poi viene svegliato, dopo aver calmato il vento e le acque, si rivolge ai discepoli in tono di rimprovero: «Perché avete paura? Non avete ancora fede?» (v. 40).
Cerchiamo di comprendere. In che cosa consiste la mancanza di fede dei discepoli, che si contrappone alla fiducia di Gesù? Essi non avevano smesso di credere in Lui, infatti lo invocano. Ma vediamo come lo invocano: «Maestro, non t’importa che siamo perduti?» (v. 38). Non t’importa: pensano che Gesù si disinteressi di loro, che non si curi di loro. Tra di noi, nelle nostre famiglie, una delle cose che fa più male è quando ci sentiamo dire: “Non t’importa di me?”. È una frase che ferisce e scatena tempeste nel cuore. Avrà scosso anche Gesù. Perché a nessuno più che a Lui importa di noi. Infatti, una volta invocato, salva i suoi discepoli sfiduciati.
La tempesta smaschera la nostra vulnerabilità e lascia scoperte quelle false e superflue sicurezze con cui abbiamo costruito le nostre agende, i nostri progetti, le nostre abitudini e priorità. Ci dimostra come abbiamo lasciato addormentato e abbandonato ciò che alimenta, sostiene e dà forza alla nostra vita e alla nostra comunità. La tempesta pone allo scoperto tutti i propositi di “imballare” e dimenticare ciò che ha nutrito l’anima dei nostri popoli; tutti quei tentativi di anestetizzare con abitudini apparentemente “salvatrici”, incapaci di fare appello alle nostre radici e di evocare la memoria dei nostri anziani, privandoci così dell’immunità necessaria per far fronte all’avversità.
Con la tempesta, è caduto il trucco di quegli stereotipi con cui mascheravamo i nostri “ego” sempre preoccupati della propria immagine; ed è rimasta scoperta, ancora una volta, quella (benedetta) appartenenza comune alla quale non possiamo sottrarci: l’appartenenza come fratelli.
«Perché avete paura? Non avete ancora fede?». Signore, la tua Parola stasera ci colpisce e ci riguarda, tutti. In questo nostro mondo, che Tu ami più di noi, siamo andati avanti a tutta velocità, sentendoci forti e capaci in tutto. Avidi di guadagno, ci siamo lasciati assorbire dalle cose e frastornare dalla fretta. Non ci siamo fermati davanti ai tuoi richiami, non ci siamo ridestati di fronte a guerre e ingiustizie planetarie, non abbiamo ascoltato il grido dei poveri, e del nostro pianeta gravemente malato. Abbiamo proseguito imperterriti, pensando di rimanere sempre sani in un mondo malato. Ora, mentre stiamo in mare agitato, ti imploriamo: “Svegliati Signore!”.
«Perché avete paura? Non avete ancora fede?». Signore, ci rivolgi un appello, un appello alla fede. Che non è tanto credere che Tu esista, ma venire a Te e fidarsi di Te. In questa Quaresima risuona il tuo appello urgente: “Convertitevi”, «ritornate a me con tutto il cuore» (Gl 2,12). Ci chiami a cogliere questo tempo di prova come un tempo di scelta. Non è il tempo del tuo giudizio, ma del nostro giudizio: il tempo di scegliere che cosa conta e che cosa passa, di separare ciò che è necessario da ciò che non lo è. È il tempo di reimpostare la rotta della vita verso di Te, Signore, e verso gli altri. E possiamo guardare a tanti compagni di viaggio esemplari, che, nella paura, hanno reagito donando la propria vita. È la forza operante dello Spirito riversata e plasmata in coraggiose e generose dedizioni. È la vita dello Spirito capace di riscattare, di valorizzare e di mostrare come le nostre vite sono tessute e sostenute da persone comuni – solitamente dimenticate – che non compaiono nei titoli dei giornali e delle riviste né nelle grandi passerelle dell’ultimo show ma, senza dubbio, stanno scrivendo oggi gli avvenimenti decisivi della nostra storia: medici, infermieri e infermiere, addetti dei supermercati, addetti alle pulizie, badanti, trasportatori, forze dell’ordine, volontari, sacerdoti, religiose e tanti ma tanti altri che hanno compreso che nessuno si salva da solo. Davanti alla sofferenza, dove si misura il vero sviluppo dei nostri popoli, scopriamo e sperimentiamo la preghiera sacerdotale di Gesù: «che tutti siano una cosa sola» (Gv 17,21). Quanta gente esercita ogni giorno pazienza e infonde speranza, avendo cura di non seminare panico ma corresponsabilità. Quanti padri, madri, nonni e nonne, insegnanti mostrano ai nostri bambini, con gesti piccoli e quotidiani, come affrontare e attraversare una crisi riadattando abitudini, alzando gli sguardi e stimolando la preghiera. Quante persone pregano, offrono e intercedono per il bene di tutti. La preghiera e il servizio silenzioso: sono le nostre armi vincenti.
«Perché avete paura? Non avete ancora fede?». L’inizio della fede è saperci bisognosi di salvezza. Non siamo autosufficienti, da soli affondiamo: abbiamo bisogno del Signore come gli antichi naviganti delle stelle. Invitiamo Gesù nelle barche delle nostre vite. Consegniamogli le nostre paure, perché Lui le vinca. Come i discepoli sperimenteremo che, con Lui a bordo, non si fa naufragio. Perché questa è la forza di Dio: volgere al bene tutto quello che ci capita, anche le cose brutte. Egli porta il sereno nelle nostre tempeste, perché con Dio la vita non muore mai.
Il Signore ci interpella e, in mezzo alla nostra tempesta, ci invita a risvegliare e attivare la solidarietà e la speranza capaci di dare solidità, sostegno e significato a queste ore in cui tutto sembra naufragare. Il Signore si risveglia per risvegliare e ravvivare la nostra fede pasquale. Abbiamo un’ancora: nella sua croce siamo stati salvati. Abbiamo un timone: nella sua croce siamo stati riscattati. Abbiamo una speranza: nella sua croce siamo stati risanati e abbracciati affinché niente e nessuno ci separi dal suo amore redentore. In mezzo all’isolamento nel quale stiamo patendo la mancanza degli affetti e degli incontri, sperimentando la mancanza di tante cose, ascoltiamo ancora una volta l’annuncio che ci salva: è risorto e vive accanto a noi. Il Signore ci interpella dalla sua croce a ritrovare la vita che ci attende, a guardare verso coloro che ci reclamano, a rafforzare, riconoscere e incentivare la grazia che ci abita. Non spegniamo la fiammella smorta (cfr Is 42,3), che mai si ammala, e lasciamo che riaccenda la speranza.
Abbracciare la sua croce significa trovare il coraggio di abbracciare tutte le contrarietà del tempo presente, abbandonando per un momento il nostro affanno di onnipotenza e di possesso per dare spazio alla creatività che solo lo Spirito è capace di suscitare. Significa trovare il coraggio di aprire spazi dove tutti possano sentirsi chiamati e permettere nuove forme di ospitalità, di fraternità e di solidarietà. Nella sua croce siamo stati salvati per accogliere la speranza e lasciare che sia essa a rafforzare e sostenere tutte le misure e le strade possibili che ci possono aiutare a custodirci e custodire. Abbracciare il Signore per abbracciare la speranza: ecco la forza della fede, che libera dalla paura e dà speranza.
«Perché avete paura? Non avete ancora fede?». Cari fratelli e sorelle, da questo luogo, che racconta la fede rocciosa di Pietro, stasera vorrei affidarvi tutti al Signore, per l’intercessione della Madonna, salute del suo popolo, stella del mare in tempesta. Da questo colonnato che abbraccia Roma e il mondo scenda su di voi, come un abbraccio consolante, la benedizione di Dio. Signore, benedici il mondo, dona salute ai corpi e conforto ai cuori. Ci chiedi di non avere paura. Ma la nostra fede è debole e siamo timorosi. Però Tu, Signore, non lasciarci in balia della tempesta. Ripeti ancora: «Voi non abbiate paura» (Mt 28,5). E noi, insieme a Pietro, “gettiamo in Te ogni preoccupazione, perché Tu hai cura di noi” (cfr 1 Pt 5,7).

27/03/20

Bob Dylan mette sul web inedito sull'omicidio di Kennedy e scrive: "State al sicuro"


Bob Dylan ha pubblicato la sua prima canzone originale in 8 anni.

Si chiama "A Murder Most Foul", dura 17 minuti e parla dell`omicidio del Presidente degli Stati Uniti John F. Kennedy, avvenuto nel 1963. 

"Saluti ai miei fan e follower con gratitudine per tutto il vostro supporto e lealta' nel corso degli anni. Questa e' una canzone inedita che abbiamo registrato qualche tempo fa che potreste trovare interessante. State al sicuro, state attenti e che Dio sia con voi. Bob Dylan" il messaggio di Bob Dylan su Twitter. 

Gli ultimi inediti di Dylan risalgono al 2012 con "Tempest", album seguito da tre antologie di cover di standard americani. 

Sarebbe atteso proprio per quest'anno un suo nuovo lavoro. 

"Murder Most Foul" sembra raccontare proprio l'omicidio di Kennedy - come nota Variety - anche se poi la canzone diventa "piu' liberamente una fantasia di cultura pop". 

Dylan fa molti riferimenti agli anni '60, con versi che includono: "I Beatles stanno arrivando, ti terranno la mano" oppure "Vado a Woodstock, e' l'eta' dell'Acquario"

Parlando della morte del Presidente sembra parlare in prima persona, come fosse il defunto Kennedy: "Cavalcando sul sedile posteriore accanto a mia moglie, andando dritto verso l'aldila', mi chino a sinistra e ho la testa sul suo grembo"



25/03/20

Mina compie oggi 80 anni - Storia di un mito italiano



Anna Maria Mazzini, in arte Mina, domani compie oggi ottant'anni. 

Che sono un traguardo importante per chiunque ma che per lei, la Tigre di Cremona, assumono una valenza particolare tenuto conto di che cosa rappresenta per la musica italiana e internazionale. Le sue canzoni hanno fatto da colonna sonora alla storia patria, pietre sulle quali molti italiani hanno costruito le proprie fantasie, ritornelli che sono entrati nella memoria collettiva e personale. 

Un repertorio sconfinato e raffinato, 'Le mille bolle blu', anno di grazia 1961, 'E se domani', 'Grande grande grande', 'Non credere' sono alcuni titoli dei brani che l'hanno resa famosa e irraggiungibile. 

Louis Armstrong defini' Mina "la cantante bianca piu' grande del mondo", stregato da quella voce potente e cristallina, invasiva per il cuore, incontenibile per l'anima. 

Ad alimentare la leggenda di Mina molto ha contribuito il buen retiro a Lugano. 

Il 6 novembre 1989 e' diventata cittadina elvetica, con tanto di passaporto, anche se in realta' in Svizzera viveva dal 1966

Poi la scelta nel 1978 di scomparire dalla scena, cioe' dalle televisioni e dai concerti, da qualsiasi evento pubblico. 

Nessuna immagine, solo qualche scatto rubato con il teleobiettivo da paparazzi coraggiosi o immagini postate dai familiari. 

L'ultima della figlia Benedetta, qualche tempo fa: piu' che altro la nuca con i capelli rossi raccolti nel consueto chignon. 

Una donna unica, Mina. Per il trucco cosi' mercato da diventare iconico, per gli abiti che la rendono particolarmente sensuale tra paillettes e spacchi, per la gestualita' da femme fatale. 

La contrapposizione con Milva, la Pantera di Goro, le scivola sulla pelle. E' oltre, Mina. Oltre tutto e tutti. Oltre il Festival di Sanremo, oltre Canzonissima, oltre Studio Uno. Oltre e basta

Anche la vita sentimentale della signora Anna Maria Mazzini e' stata particolare. 

Dalla relazione con Corrado Pani, nel 1963 e' nato il primogenito Massimiliano, dal matrimonio con il giornalista Virgilio Crocco e' nata Benedetta, nel 1971. 

Ultimo colpo di fulmine con Eugenio Quaini, con il quale si e' sposata nel 2006. 

Amori intensi e fugaci, tutti avvolti in quell'alone di mistero che oggi chiameremmo privacy estrema.

 Gli ottant'anni di Mina sono un punto ma nessuno si sogna di andare a capo. 

Il suo ultimo lavoro, il disco con Ivano Fossati, ha riscosso il solito, enorme successo. Si chiama 'Mina-Fossati'. Undici brani, il primo si intitola 'L'infinto di stelle': forse non e' un caso. E, comunque, auguri.

24/03/20

Perché i tabaccai aperti e le librerie chiuse??



I tabaccai sono aperti, ma le librerie no

Eppure sappiamo che anche la lettura da' dipendenza e che in certi frangenti e' assolutamente un bene necessario. 

E' vero che siamo tutti chiusi in casa e ce la passiamo molto, molto meglio di quel che sarebbe stato non molto tempo fa, quando non c'era il web con le sue infinite possibilita' di contatti a distanza, di gioco, di svago o l'enorme offerta tv, ma la lettura, il perdersi attraverso una pagina in mondi, storie, sentimenti virtuali coinvolgenti resta ancora uno "strumento" essenziale per vivere queste giornate

I librai protestano, molti ricordano come, prima dell'ultimo decreto, fossero rimasti aperti "per impegno e testimonianza di civilta'" in gran parte d'Italia. 

"Si deve essere trattato di un errore nella drammatica concitazione di questi giorni" dice Ambrosetti, presidente dell'Ali - Associazione Librai Italiani, cui si affiancano ovviamente gli editori, che chiedono aiuti come ogni altra attivita' produttiva, ma unendosi anche al coro di tutte le istituzioni culturali, dai cinema ai teatri e musica, che usciranno da questa situazione in gravissima sofferenza. Chi ha avuto un libro uscito nei giorni scorsi e' come non avesse pubblicato nulla e le case editrici hanno sospeso le nuove uscite in programma. Il pericolo e' in particolare per le librerie indipendenti, che gia' vivono un periodo difficile e devono puntare tutto sul rapporto personale col cliente, assediate come sono dalle grandi catene e soprattutto dalle vendite online

C'e' qualcuno che pare stia provando a tenere i contatti con i clienti via telefono o internet e recapitare i libri a domicilio nel quartiere, che e' un metodo di cui e' stata lasciata liberta' alle pizzerie, per esempio. 

"E' tutto vero, ma e' inevitabile che in questo momento si finisca per puntare sull'elettronica e vengano spinti in ogni modo gli ebook e sulle piattaforme di vendita come Ibs ce ne sono molti gratuiti, specie di titoli classici che gli editori hanno messo a disposizione, e per i piu' tradizionali si ordinano ovviamente anche i libri cartacei che arrivano veloci sino a casa o ci si rivolge a supermercati e edicole, che pero' hanno un'offerta limitata in genere ai bestseller", spiega Sandro Ferri, fondatore e patron con la moglie Sandra Ozzola delle Edizioni E/O e di Europa Editions Usa e UK, celebri come scopritori e editori di Elena Ferrante, ma noti anche per aver ritirato i propri titoli cartacei da Amazon che chiedeva sconti e percentuali "offensivi e insostenibili". 

Questo non ha impedito pero' che nelle settimane appena passate la E/O sia stata la seconda per vendite nella grande distribuzione (appunto supermercati e edicole) dopo il colosso Mondadori, proprio grazie ai volumi dell'Amica geniale'. 

Le piattaforme di vendita online, a conferma di tutto questo, pare abbiano avuto un'impennata di ordinazioni di circa il 50%. E in mezzo comunque restano gli autori, che si sono viste annullate tutte le presentazioni. Se di un libro si comincia a parlare, ora che si legge di piu', diventa pero' difficile reperirlo. Non parliamo poi di autori debuttanti, che spariscono nella confusione generale. 

Molti, come fanno appunto alla E/O, invitano e guidano i propri autori all'uso dei social, a farsi vedere, a parlare, a leggere brani dei propri libri, a colloquiare coi lettori, a partecipare alle iniziative collettive per far vedere che sono presenti in questo momento e partecipano alla particolare situazione mettendo in gioco la loro creativita', il loro carisma. 

22/03/20

Poesia della Domenica: "L'Ombra della Luce" di Franco Battiato


L'ombra della luce

Difendimi dalle forze contrarie, 
la notte, nel sonno, quando non sono cosciente; 
quando il mio percorso, si fa incerto. 

E non abbandonarmi mai
Non mi abbandonare mai 
Riportami nelle zone più alte 
in uno dei tuoi regni di quiete: 
E' tempo di lasciare questo ciclo di vite. 

E non abbandonarmi mai
Non mi abbandonare mai 
Perché le gioie del più profondo affetto, 
o dei più lievi aneliti del cuore, 
sono solo l'ombra della luce. 

Ricordami, come sono infelice 
lontano dalle tue leggi; 
come non sprecare il tempo che mi rimane. 

E non abbandonarmi mai
Non mi abbandonare mai 
Perché la pace che ho sentito in certi monasteri, 
o la vibrante intesa di tutti i sensi in festa, 
sono solo l'ombra della luce



21/03/20

Le cinque streghe avvelenatrici e la Peste a Roma



C’era un tempo in cui anche a Roma esisteva la caccia alle streghe. Il 5 luglio del 1659 cinque donne, Gerolama Spana, Maria Spinola, Graziosa Farina, Cecilia Bossi Verzellini e Laura Crispolti furono condannate a morte per “fabbricazione di liquido velenoso, detto Acquetta, avvelenamento di congiunti e spaccio del veleno ad altre donne.”

Ma di cosa si trattava, esattamente ?

L’accusa per le cinque donne romane era quella di aver utilizzato la famosa Acqua Tofana (conosciuta con mille nomi diversi nelle diverse regioni italiane),  un liquido velenoso brevettato per la prima volta da una certa Giulia Tofana, palermitana, che nel 1640 realizzò una pozione incolore, inodore e insapore – simile ad acqua, appunto – destinata ad alimentare il mercato delle vedove o dei vedovi, in un’epoca in cui non esisteva ovviamente il divorzio: per eliminare definitivamente cioè il proprio coniuge.

La pozione segreta ebbe un tale successo che il suo uso si diffuse rapidamente in molte città italiana: essa conteneva principalmente arsenico, piombo e probabilmente una essenza di belladonna.  Giulia Tofana era riuscita a produrre la micidiale soluzione facendo bollire in una pentola chiusa ermeticamente, acqua insieme ad una miscela di limatura di piombo, antimonio e anidride arseniosa.
L’assenza di qualsiasi odore o sapore permetteva di usarlo praticamente senza lasciare traccia, versando una piccola quantità in un bicchiere di vino, o direttamente sul cibo.

La persona che lo inghiottiva moriva in pochi minuti tra atroci spasmi.

Lo smercio dell’Acqua Tofana avveniva ovviamente clandestinamente, e soprattutto per via femminile. La pozione era accompagnata da un minuzioso manuale che ne spiegava l’uso.

Ad essa dunque fecero ricorso anche le cinque donne romane, pochi anni dopo la sua invenzione.

Le autorità ecclesiastiche ricostruirono una sordida vicenda di avvelenamenti multipli, che aveva coinvolto, come protagoniste, anche donne di alto lignaggio, tra cui la duchessa di Ceri, una Vitelleschi e altre patrizie allettate dalla possibilità di sbarazzarsi di scomodi mariti e di ereditarne le ricchezze.

I giudici dell’Inquisizione, però, come accadeva spesso, mentre non ebbero pietà con le cinque donne che appartenevano ad un ceto inferiore, risparmiarono le donne dell’alta società, liberandole da qualunque accusa.

Per le streghe dedite all’uso dell’Acqua Tofana, le condanne erano durissime e spaventose. L’Inquisizione aveva introdotto infatti la condanna della muratura a vita, una sorta di condanna a morte dilazionata nel tempo, nelle condizioni sepolte vive; oppure l’impiccagione, che veniva eseguita nella pubblica piazza.

Sorte che toccò alle cinque donne, giustiziate in Campo de’ Fiori.

Nelle cronache dell’epoca c’è il racconto dettagliato dell’esecuzione.

Il 5 luglio del 1659, riporta Giacinto Gigli, dopo pranzo furno fatte morire cinque donne in Campo de’ Fiore le quali nelli anni passati nel tempo del contaggio (l’epidemia di peste del 1656) havevano carafe d’acqua distillata con veleni d’arsenico e sollimato (sublimato di mercurio e cromo) per far morire la gente con la quale acqua molte donne havevano uccisi li mariti et altri parenti, delle quali donne ne furono murate molte nelle carceri dell’Inquisizione. (5)

La scelta del luogo di Campo de’ Fiori al posto dell’usuale Ponte Sant’Angelo fu dovuta proprio allo scandalo derivato dalla vicenda e dal fatto che riguardasse cinque donne: il che si costuma verso i malfattori più enormi per celebrità, era la motivazione che si lesse nelle cronache dell’epoca.

Alle cinque donne avvelenatrici fecero seguito, per altri due secoli molte altre condanne ai danni di donne: l’ultima in assoluto, una certa Michelina Cimini, fu giustiziata – per omicidi – il 20 luglio del 1841 con il taglio della testa mediante ghigliottina a Ponte Sant’Angelo.



Tratto da Fabrizio Falconi - Roma Segreta e Misteriosa, Newton Compton Editore, Roma, 2015

20/03/20

Covid-19 - La felicità di appartenere a questa Italia


Lo dico da uno che è stato sempre allergico, da quando ero piccolo, al patriottismo italiano, che spesso (quasi sempre) ho sentito come abito impossibile da indossare e da condividere: troppo  spesso ipocrita e ridicolmente vanaglorioso, provinciale e inautentico, buono solo quando si vincono i mondiali o bisogna mostrare i muscoli facendo gli sberleffi ai francesi. 

La patria, ho sempre pensato, se esiste nella realtà, è un senso di comunità tra simili. E gli italiani non sono mai una vera comunità (che significa avere veramente cura e interesse per gli altri, e soprattutto per la cosa pubblica) , ma sempre gruppo, fazione, o purtroppo gregge. 

E però ci sono state e ci sono diverse circostanze in cui sento orgoglio o quantomeno dignità, grande dignità di appartenere a questo popolo, a questa (incompleta e mai compiuta) comunità. 

E questa è una di quelle. 

In questa circostanza - come nel dopoguerra - gli italiani stanno tirando fuori il meglio. 

Sono felice di non appartenere a un paese e a un popolo dove i malati vengono nascosti (Russia, Turchia, Egitto), dove nessuno sa e saprà quanti moriranno per una spaventosa epidemia. Sono felice di non appartenere a un paese e a un popolo (Usa, Gran Bretagna) in cui si accetta che in nome del populismo più becero, si lascino i malati malati, si dica loro di rimanere a casa e di curarsi a casa, e poi se tirano le cuoia, meglio così: meno pensioni da pagare per tutti, e una parte scomoda e inutile di popolazione si toglie dalla balle. 

E se proprio qualcuno si deve curare, si curino quelli che hanno il denaro. 

Sono felice di appartenere a un popolo in cui fino all'ultimo novantenne, sarà concessa la possibilità di curarsi, in cui verranno fatti tamponi fino alla fine, in cui non si nasconderà il numero impressionante dei morti, dei contagiati, di una cosa che si fa fatica ad arginare perché é una nuova peste sottile e subdola. Un paese e un popolo in cui non ci si vergognerà e non ci si vergogna della debolezza e si fa tutto il possibile - anche quello che lo Stato o uno stato non sa fare - per assicurare che l'umanità venga rispettata, anche nella malattia, anche nella morte.

Fabrizio Falconi
marzo 2020 

17/03/20

The Koln Concert: Come nacque il capolavoro (immortale) di Keith Jarrett




The Köln Concert è la celebre registrazione del pianista Keith Jarrett pubblicata dall'etichetta ECM, frutto di una improvvisazione solista eseguita all'Opera di Colonia nel 1975

È considerato il più famoso album di jazz solo, con 3 milioni e mezzo di copie vendute.

Diventato un must per un pubblico internazionale, di ogni confine, censo e età, The Köln Concert è stato definito da un critico, un capolavoro "che scorre con calore umano".

Con il passare degli anni si sono diffuse molte leggende intorno a questa esecuzione improvvisata, che non ebbe alcuna registrazione video, e nemmeno immagini fotografiche. 

Il concerto a Colonia faceva parte del suo tour europeo solista iniziato nel 1973.

Precedentemente, Jarrett aveva suonato in formazioni di tre o quattro elementi, poi si era aggregato al gruppo di Miles Davis. Per richiesta di quest'ultimo aveva abbandonato il piano acustico per passare al piano e l'organo elettrici, cosa che non gli piaceva.

Il tour da solista fu quindi un ritorno alla sua vena artistica più naturale. 

Giunto al teatro poche ore prima del concerto per provare il piano, Jarrett constatò che non vi era lo strumento pattuito, un Bösendorfer 290 Imperial, bensì un altro pianoforte, della stessa fabbrica, ma molto più piccolo

Peraltro lo strumento, usato dal coro del teatro, aveva un pedale rotto e non era accordato correttamente. 

Jarrett, pertanto, andò a cena e disse all'organizzatrice dell'evento che, se non fosse riuscita a rimediare sostituendo il pianoforte con quello pattuito, non avrebbe suonato. 

L'organizzatrice riuscì a sistemare l'accordatura dello strumento, ma il pianista non fu soddisfatto. Solo a causa dell'insistenza della stessa, decise di effettuare lo stesso il concerto.

La registrazione del concerto è divisa in tre parti, che durano rispettivamente 26, 33 e 7 minuti. 

Originariamente il disco fu distribuito come LP, perciò la seconda parte fu divisa in ulteriori due parti, chiamate "II a" e "II b". La terza parte, chiamata "II c", è l'encore eseguito alla fine del concerto. 

Un importante aspetto di questo album è la capacità di Jarrett di eseguire un gran numero di improvvisazioni su una vamp (equivalente jazzistico dell'ostinato) di uno o due accordi per periodi piuttosto prolungati di tempo. 

Ad esempio, nella parte I, Jarrett esegue ben 12 minuti di improvvisazione utilizzando praticamente due soli accordi, il la minore settima e il sol maggiore. 

A volte lo stile è calmo, a volte affine al blues, a volte vicino al gospel e alla musica classica

Per gli ultimi sei minuti della parte I inoltre rimane su un tema sull'accordo di la maggiore. 

Nella parte IIA, gli ultimi otto minuti si sviluppano sul re maggiore, mentre nella parte IIB i primi sei minuti sono un'improvvisazione sull'accordo di fa diesis minore. 

Fin dall'uscita dell'album, furono pressanti le richieste su Jarrett di pubblicare una trascrizione della musica.

Inizialmente Jarrett si rifiutò di soddisfare la richiesta, perché disse che: il concerto era completamente improvvisato e secondo lui "doveva andarsene così come era venuto"; alcune parti del concerto non sono possibili da trascrivere, in quanto completamente fuori dal tempo metronomico. 

Alla fine Jarrett cambiò idea, ma pose la condizione di poter controllare tutte le fasi del processo di trascrizione.

Successivamente è stata pubblicata anche una trascrizione per chitarra classica, dovuta a Manuel Barrueco. 

All'inizio della Parte 1 è possibile udire una risata di uno spettatore dovuta al fatto che Jarrett iniziò l'esecuzione citando una melodia dell'opera di Colonia, che avvisava gli spettatori dell'inizio dello spettacolo.

16/03/20

Cosa sono i virus? Quel poco che ne sappiamo



Quando sentite parlare di relativismo, ricordatevi che - ce lo insegna la pandemia attuale - il relativismo riguarda da vicino anche la scienza, che non è portatrice di verità assolute, ma solo di risultati parziali, validi fino a prima della prossima scoperta scientifica. 

Il fatto è che l'uomo - e dunque la scienza -  sa ancora pochissimo dei virus, che sono l'entità biologica in assoluto di gran lunga più abbondante sulla Terra.

Ma anche il concetto di "entità biologica" applicato ai virus è fonte di parecchi problemi: 

I virus infatti sono acellulari. Nel senso che non sono fatti di cellule, ma si replicano solo all'interno di altre cellule.

Il primo virus è stato scoperto nel 1892.

Attualmente si conoscono SOLO 5.000 specie di virus, descritte in dettaglio. Si ritiene però che ne esistano MILIONI di diversi tipi e che esistano in tutti gli ecosistemi della terra, anche i più estremi.

Nella storia dell'evoluzione, le origini del virus sono sconosciute.

I virus sono considerati da alcuni biologi come forme di vita, anche se in effetti, non essendo dotati  né di cellule proprie, né di metabolismo, sono spesso indicati come organismi "ai margini della vita", qualunque cosa questo significhi. 

I virus possono infettare tutti i tipi di forme di vita, dagli animali, alle piante, ai microrganismi (compresi batteri e archeobatteri).

La gran parte dei virus sono talmente piccoli da essere invisibili anche al microscopio, essendo dell'ordine di  grandezza di un centesimo di un normale batterio.

I virus, come è noto, pur aggregandosi a forme biologiche - cellule - sono immuni dagli antibiotici. E un piccolissimo, quasi insignificante organismo "ai margini della vita" è ancora oggi in condizione di mettere in ginocchio una intera comunità - mondiale - di esseri umani.

In conclusione, la scienza sa ancora pochissimo di cosa sono e come funzionano i virus. Dovremmo tenerlo a mente quando sovraccarichiamo la scienza di aspettative quasi fosse la nuova divinità.

Fabrizio Falconi
marzo - 2020 

15/03/20

La Lettura della Domenica: "Cecità" di Josè Saramago - un romanzo profetico

José Saramago (1992-2010)

Riporto qui Incipit ed Explicit del profetico romanzo - bellissimo, uno dei migliori in assoluto degli ultimi 50 anni - di Josè Saramago, Cecità, pubblicato nel 1995. Saramago ha vinto il Premio Nobel per la Letteratura nel 1998. 


Incipit 


Il disco giallo si illuminò. Due delle automobili in testa accelerarono prima che apparisse il rosso. Nel segnale pedonale comparve la sagoma dell'omino verde. La gente in attesa cominciò ad attraversare la strada camminando sulle strisce bianche dipinte sul nero dell'asfalto, non c'è niente che assomigli meno a una zebra, eppure le chiamano così. Gli automobilisti, impazienti, con il piede sul pedale della frizione, tenevano le macchine in tensione, avanzando, indietreggiando, come cavalli nervosi che sentissero arrivare nell'aria la frustata. Ormai i pedoni sono passati, ma il segnale di via libera per le macchine tarderà ancora alcuni secondi, c'è chi dice che questo indugio, in apparenza tanto insignificante, se moltiplicato per le migliaia di semafori esistenti nella città e per i successivi cambiamenti dei tre colori di ciascuno, è una delle più significative cause degli ingorghi, o imbottigliamenti, se vogliamo usare il termine corrente, della circolazione automobilistica.

Finalmente si accese il verde, le macchine partirono bruscamente, ma si notò subito che non erano partite tutte quante. La prima della fila di mezzo è ferma, dev'esserci un problema meccanico, l'acceleratore rotto, la leva del cambio che si è bloccata, o un'avaria nell'impianto idraulico, blocco dei freni, interruzione del circuito elettrico, a meno che non le sia semplicemente finita la benzina, non sarebbe la prima volta.

Il nuovo raggruppamento di pedoni che si sta formando sui marciapiedi vede il conducente dell'automobile immobilizzata sbracciarsi dietro il parabrezza, mentre le macchine appresso a lui suonano il clacson freneticamente. Alcuni conducenti sono già balzati fuori, disposti a spingere l'automobile in panne fin là dove non blocchi il traffico, picchiano furiosamente sui finestrini chiusi, l'uomo che sta dentro volta la testa verso di loro, da un lato, dall'altro, si vede che urla qualche cosa, dai movimenti della bocca si capisce che ripete una parola, non una, due, infatti è così, come si viene a sapere quando qualcuno, finalmente, riesce ad aprire uno sportello, Sono cieco.


Explicit

Perché siamo diventati ciechi, Non lo so, forse un giorno si arriverà a conoscerne la ragione, Vuoi che ti dica cosa penso, Parla, Secondo me non siamo diventati ciechi, secondo me lo siamo, Ciechi che vedono, Ciechi che, pur vedendo, non vedono. La moglie del medico si alzò e andò alla finestra. Guardò giù, guardò la strada coperta di spazzatura, guardò le persone che gridavano e cantavano. Poi alzò il capo verso il cielo e vide tutto bianco, è arrivato il mio turno, pensò. La paura le fece abbassare immediatamente gli occhi. La città era ancora lì.

14/03/20

Covid-19: L'inattività come prova collettiva



Costretti all'inattività. Questo cui stiamo partecipando - con la pandemia da Covid-19 - è un interessante (oltre che angoscioso) - e inedito - esperimento sociale collettivo

Blaise Pascal in uno dei suoi famosi Pensieri, scriveva impietosamente che "Tutta l'infelicità dell'uomo deriva dalla sua incapacità di starsene nella sua stanza da solo." 

Ora siamo costretti obtorto collo, a farlo, come non era mai stato fatto prima, almeno qui. 

Certo, non è la solitudine invocata da Pascal. 

La solitudine obbligata e ritirata del Covid-19 è attenuata parecchio dall'onnipresente schermo dello smartphone, che consola, accompagna, fa viaggiare virtualmente ovunque, intrattiene, diverte, riempie gli spazi, non lascia mai soli, proibisce di annoiarsi, esaudisce ogni desiderio e soprattutto come scriveva Pascal proibisce di starsene nella propria stanza da solo.

Perché come sappiamo, chi è dotato di quella protesi - TUTTI - ormai non è mai VERAMENTE solo. 

E però stavolta, la prova è assai interessante. Perché la versatilità infinita del nostro apparato tecnologico potrebbe - alla lunga - non bastare

Cominciamo ad avvertire, avvertiamo la nostalgia della non virtualità, del contatto soprattutto. Il famoso contatto umano. 

Che abbiamo dato per scontato, ma non lo è.

L'inattività obbligata, alla lunga ci trasformerebbe tutti come gli omini obesi nell'astronave di Wall-E, che vivono mangiando e guardando uno schermo. Non sembra una prospettiva allettante.

Fabrizio Falconi
marzo - 2020 


13/03/20

100 film da salvare alla fine del mondo: 58: Kolya (Kolja) di Jan Sverak, Repubblica Ceca, (1996)



Questo blog dedica, ad appuntamenti fissi - ogni lunedì - un catalogo personale dei miei 100 film da salvare "alla fine del mondo". Non saranno ovviamente vere e proprie recensioni, ma un piccolo campionario degli affetti per queste opere che hanno segnato epoche e vite di molti, se non di tutti. 

100 film da salvare alla fine del mondo: 58: Kolya (Kolja) di Jan Sverak, Repubblica Ceca, (1996) 

Louka Frantisek, violoncellista praghese dissidente squattrinato, durante la perestrojka accetta di sposare per soldi una donna russa, soltanto per farle avere la cittadinanza. 

La donna però fugge all'Ovest e Louka rimane da solo con Kolya, il figlio della donna, un bambino russo di 5 anni, che non parla la sua lingua.

Louka, scapolo impenitente, si industria a far da padre dopo molte riluttanze, e quando finisce per stringere con il bambino un legame profondo, deve riportarlo alla madre. 

E' delicato, poetico il tocco di Jan Sverak e ricorda quello di Jaco Van Dormael con Totò le Heros, o di Kusturica in Papà è in viaggio d'affari. 

Un film magnificamente girato, con interpreti che non si dimenticano e che ha ricevuto numerosi premi tra cui l'Oscar per il miglior film straniero nel 1996. Che scalda il cuore, senza essere mai ricattatorio. 

05/03/20

Perché la serialità tv italiana è così sterile e asfittica?



E' piuttosto inspiegabile - e indice di un paese a corto di ispirazione o di iniziativa - il fatto che in Italia - con il bendiddio rappresentato da 3000 anni di retaggi storici e civiltà patrie - si producano  soltanto serie tv e film sulle gomorre, ndranghete, suburre, oppure rassicuranti polpettoni biopic o don mattei, o al massimo della creatività, gli infiniti papi sorrentiniani.  

Ora non si pretende certo, in questo clima, un riaffacciarsi di produttori come quelli che hanno fatto grande il cinema e la serialità italiana in passato, che erano sperimentatori geniali, non si pretendono certo gli Otto e Mezzo, i Blow up, i Gattopardi, e nemmeno di certo le Anna Karenina di Bolchi o le Mani Sporche di Sartre-Petri, che andavano in onda sulla RAI nazionale, ma qualcosa di minimamente creativo che riguardi le nostre meravigliose storie - La Storia di Elsa Morante? Gli Indifferenti di Moravia? Il nostro ventennio fascista? Gli anni di piombo? Il sequestro Moro? Oppure, che so, se vogliamo essere sicuri di vendere una serie all'estero: una grande serie sulla moda italiana? Una serie tv sulla vita avventurosa di Caravaggio? Un film sulla epoca d'oro di Cinecittà a Roma? Un film sullo sbarco ad Anzio vissuto dagli italiani che vivevano su quella costa? Un bel filmetto sul furto della Gioconda? Una serie storica sulla Sindone? Una serie sulla epopea di Enzo Ferrari? Un divertente serial-commedia ambientato nei retroscena di un grande ristorante di alta cucina italiana?  

Forse è troppo chiederlo? Il fatto è che si guardano le cose prodotte e sfornate ogni mese dalla BBC e dagli altri canali britannici - non parliamo di Netflix, HBO o Amazonvideo - e cascano le mani.


Fabrizio Falconi
- marzo 2020