22/04/18

Il Libro del Giorno: "Conoscenza, Ignoranza, Mistero" di Edgar Morin.




E' uno dei libri più intensi e meravigliosi che mi sia stato dato di leggere negli ultimi decenni. 

Quasi centenario (l'8 luglio compirà 97 anni), Edgar Morin ha scritto lo scorso anno questo breve saggio (148 pagine) di incredibile lucidità e profondità di sguardo. 

Con la sua celebre prosa asciutta e densa, il nobile vegliardo della filosofia contemporanea riesce ad offrire un testo-compendio, o testo-testamento, summa del suo percorso di conoscenza, durato quasi 70 anni tra studi, cattedre, onorificenze, seminari, convegni internazionali, pieno di folgoranti illuminazioni e di profonda consapevolezza. 

Con gli occhi lucidi di chi si avvicina alla morte, Morin distilla un percorso lungo l'attuale panorama delle conoscenze umane più estreme: cosa è la realtà, cosa è l'universo immane che ci circonda, cosa è la vita biologica, come sia nata e come sia possibile l'evoluzione, cosa sia la creatività della vita vivente, cosa quella umana e che cosa sia l'umano, che è sconosciuto a se stesso, cosa siano il cervello e la mente, cosa sia l'orizzonte post-umano che sembra attenderci tutti.

La constatazione, l'elencazione di queste conoscenze, rende evidente ciò che già avevano intuito i nostri padri. Chi aumenta la sua conoscenza aumenta la sua ignoranza, scriveva Friedrich Schlegel.  E San Giovanni della Croce: E la sua scienza aumenta mentre rimane senza sapere.

Queste due frasi sono portate in ex ergo insieme a diverse altre e riassumono lo spirito del libro: La conoscenza - che Morin ama smisuratamente, al punto di averne fatto il centro della propria esistenza - è problematica, perché, come scrive nelle prime pagine, Tutto ciò che è evidente, tutto ciò che è conosciuto diventa stupore e mistero. 

L'essere umano, infatti vive gettato (Heidegger) in una realtà misteriosa nella quale armonia e disarmonia si combinano e ciò che concorda e ciò che discorda si uniscono (Eraclito).

Più sappiamo del nostro universo, dell'universo che abbiamo intorno e che esploriamo con i nostri mezzi tecnologici sempre più potenti, sempre meno ne sappiamo, sempre maggiore diviene il mistero. Basti pensare che il 95% del nostro universo è formato di massa oscura ed energia oscura che non sappiamo ancora cosa siano. Per non parlare di come esso si sia formato e da cosa, di cosa vi fosse prima, di cosa ci sia oltre, di quale sia il destino dell'universo stesso. 

Più sappiamo della vita biologica, attraverso le nostre conoscenze, e meno ne sappiamo, sempre maggiore diviene il mistero. Basti pensare a come e perché la vita si sia sviluppata da sostanze inerti, del come essa si sia evoluta, di come in quel filamento di DNA siano contenute le informazioni contenute in 2 miliardi di anni di evoluzione dal primo organismo unicellulare alla macchina infinitamente complessa che è il corpo umano. 

Più sappiamo del cervello e della mente, attraverso indagini sempre più affrofondite, meno sappiamo di una macchina formata da cento miliardi di neuroni (dieci alla undicesima) collegati tra di loro e intrecciati in centomila miliardi di connessioni sinaptiche immerse in bagni di cellule gliali, meno sappiamo di cosa sia la coscienza, di come essa si sia formata, meno sappiamo del confine che esiste - ammesso che esista - tra la mente e il cervello. 

Più sappiamo del mondo atomico, e meno sappiamo, meno riusciamo a capire come sia possibile che tutta la realtà che noi vediamo sia formata essenzialmente da vuoto e da minuscole cariche elettriche, da particelle che sono anche onde e da quanti di energia. 

Insomma, il libro di Morin è una sublime  e informatissima cavalcata attraverso le estreme frontiere della scienza e della conoscenza, attraverso quello che hanno rivelato e quello di ancora più grande che nascondono, attraverso il mistero sconfinato che ci circonda e ci abita. 

Il fiammifero che accendiamo nel buio, scrive Morin, nelle ultime pagine, non solo rischiara un piccolo spazio, rivela anche l'enorme oscurità che ci circonda.

E' però un libro mirabile perché non vi è in esso una abiura della conoscenza, una rinuncia delle sue facoltà. Il Mistero non sminuisce per nulla la conoscenza che conduce ad esso, scrive anzi Morin.

Si può vivere, come fanno in tanti, quasi tutti, ignorando, banalizzando, razionalizzando l'ignoto e l'inconoscibile, in definitiva rimuovendolo e facendo finta che non esista.

Ma non servirebbe e non serve a niente: Morin ci impartisce invece una lezione definitiva. Il Mistero va affrontato, il mistero ci incoraggia a decidere e ad agire nell'incertezza, ci pungola a partecipare all'avventura umana,  una avventura che mischia il sublima e l'orribile, ci spinge ad accettare consapevolmente e con pienezza, la nostra aspirazione alla gioia e all'estasi che ci dà il senso (illusiorio? veritiero?) di unirci a un'innominabile sublimità che ci trascende. 

Un libro che è una esperienza. Anzi che E' esperienza. E che non si dimentica.



21/04/18

21 Aprile 2018, Natale di Roma - La misteriosa sepoltura di Romolo, il fondatore della Città Eterna, nel cuore del Foro Romano (Lapis Niger).


Alla mitologia di Romolo, fondatore della città, sono legati diversi fondamentali luoghi di Roma, in primis il luogo della sua sepoltura, la sua tomba, che nella tradizione di derivazione greca, assorbita dai Romani, spettava a lui di diritto nella piazza (agorà) centrale della città. 

Il sacro diritto, spettante soltanto ai fondatori della città, fu dunque, in tempi antichissimi assegnato a Romolo, stabilendo che la sua tomba (heròon) dovesse collocarsi nel cuore cittadino, nel Foro, tra l’edificio della Curia e il Comizio che anticamente funzionava come orologio solare, meridiana di riferimento per tutta la città. 

Il luogo della sepoltura di Romolo fu immediatamente dichiarato sacro e l’antico toponimo di Lapis Niger è legato al materiale che fu usato per la sua copertura: un lastricato in marmo nero (risalente ai lavori che furono effettuati mentre regnava Lucio Cornelio Silla), i cui frammenti sono miracolosamente sopravvissuti e ancora oggi visibili.


Il luogo individuato nell’area del Foro non era soltanto quello della sepoltura di Romolo, bensì anche quello della sua morte. Nella probabile realtà storica infatti – a dispetto della tradizione che volle deificare Romolo raccontando di una sua ascesa al cielo dal Campo Marzio, avvolto in una nube luminosa - il fondatore di Roma sarebbe stato ucciso da una congiura dei patrizi durante una seduta del consiglio regio al Volcanale, ovvero il Tempio di Efesto nel Foro Romano, che si trovava proprio sopra il Comitium

Il Lapis Niger poi potrebbe essere ancora più antico e precedere la stessa sepoltura di Romolo: secondo alcuni infatti il luogo sarebbe già stato identificato per dare sepoltura a Faustolo, il padre adottivo di Romolo. 

 Mentre secondo altri ricercatori l’antichissima tomba (che una volta era a cielo aperto) si riferirebbe ad Osto Ostilio, il nonno di Tullo Ostilio, il terzo dei re di Roma. 

E all’epoca di Marco Terenzio Varrone (116-27 a.C.), lo scrittore riferiva la presenza di due leoni accovacciati che erano di guardia al sacro sepolcro. 

 Quel che è certo è che il primo nucleo originario della struttura risale al VI secolo a.C. e a questa stessa epoca risalgono le strutture sotterranee: una piattaforma su cui era posto un altare a forma di U dotato di un basamento e di due cippi, uno conoidale che forse era la base di una statua (probabilmente di Orazio Coclite identificato come il dio Vulcano aggiunta all’inizio del III secolo a.C.), ed uno trapezoidale con una legge sacra iscritta in latino arcaico su tutte e quattro le facce.


I cippi sono oggi entrambi mutili, ma ovviamente quello più interessante è quello trapezoidale che ha dato molto lavoro agli archeologi e agli epigrafisti. L’iscrizione infatti presenta caratteri simili alla scrittura greca, ma che non sono greci e perlopiù sono disposti alla maniera bustrofedica, cioè da sinistra a destra e a capo da destra a sinistra, come fanno gli aratri nei campi

Per molto tempo questa iscrizione – fino alla incredibile scoperta della Fibula Praenestina (la spilla in oro del VII secolo a.C. scoperta a Palestrina nel 1887 e conservata oggi al Museo Luigi Pigorini) – era ritenuta la più antica latina mai conosciuta

E ancora oggi viene ritenuta importantissima per la decifrazione del latino arcaico. Pur essendo mutilata, gli esperti hanno potuto interpretare l’iscrizione come una formulazione di maledizione contro chi osasse violare questo luogo di sepoltura sacro, un po’ come avveniva per i sepolcri dei faraoni dell’Antico Egitto.


Il nero utilizzato per il lastrico, i leoni di guardia, e la misteriosa pietra, hanno per lungo tempo protetto il luogo dalla intrusione dei predoni e dalla furia dei vandali. E ancora oggi è una delle principali attrazioni del Foro Romano.

Fabrizio Falconi
riproduzione riservata - 2018

19/04/18

Il Libro del Giorno: "Mia cugina Rachele" di Daphne du Maurier




L'editore Neri Pozza ha recentemente ripubblicato un classico della narrativa del secondo novecento, Mia cugina Rachele (titolo originale: My Cousin Rachel), scritto nel 1951 da Daphne du Maurier e divenuto un grande successo internazionale continuamente ristampato in mezzo mondo. 

Dal romanzo fra l'altro è stato tratto un altrettanto celebre film l'anno seguente, diretto Henry Koster con Olivia de Havilland e Richard Burton, mentre proprio l'anno scorso - sugli schermi italiani adesso -  è stata realizzata una seconda trasposizione cinematografica dal titolo Rachel, interpretata da Sam Claflin nel ruolo di Philip e da Rachel Weisz (omonima del personaggio della protagonista che interpreta), per la regia di Roger Michell.

La nuova edizione, pur penalizzata da una traduzione incomprensibilmente trasandata e zeppa di vezzeggiativi, offre l'occasione per tornare su una scrittrice dalla lunga vita e dalla notevole produzione che è stata sempre snobbata dalla critica colta, forse anche a causa dello sterminato successo che ha arriso alla sua narrativa. 

La vicenda raccontata è nota: ai primi dell'Ottocento, Philip Ashley, orfano dei genitori, racconta in prima persona la sua storia: allevato dal cugino Ambrose Ashley - più grande di vent'anni -  è rimasto solo nella grande tenuta signorile in Cornovaglia che erediterà al compimento del suo 25mo compleanno. Il cugino Ambrose infatti, per ragioni di salute è partito per l'Italia, lasciando Philip a casa.  Giunto a Firenze Ambrose incontro la cugina italiana Rachele, che, vedova di un conte italiano, vince la diffidenza di Ambrose per le donne, al punto che questi decide di sposarla.  Ben presto però arrivano a Philip notizie preoccupanti: Ambrose è malato, e scrive strani e inquietanti messaggi.  Philip, d'accordo col suo padrino e tutore Nick Kendall, si mette in viaggio e giunto in Italia, scopre che Ambrose è morto e la cugina Rachele se ne è andata. 

L'odio per Rachele, per averle portato via l'adorato cugino, si trasforma in breve in ossessione quando lei si presenta in Inghilterra per spiegare la situazione e di come la malattia di Ambrose - un tumore al cervello - lo abbia ucciso, deviandone le capacità di intendere e di volere. 

Philip passa dalla aperta e totale ostilità all'amore incondizionato per Rachele, che nel frattempo è riuscita a farsi benvolere da tutti i coloni della zona. 

Il sospetto però presto si impadronisce di Philip, il quale comincia a pensare che Rachele stia ripetendo con lui lo stesso copione recitato con Ambrose, al fine di impossessarsi di tutti i suoi beni.

Un melodramma, insomma, adatto al gusto dell'epoca che però, riletto oggi, suggerisce diverse chiavi di letture, nessuna banale.  Se infatti è piuttosto facile leggere il romanzo in chiave misogina, questa non appare affatto la reale intenzione della Du Maurier. Tutt'altro: il finale completamente aperto e ambivalente lascia spazio all'interpretazione opposta, e Rachele lungi dall'essere una strega cinica e subdola, potrebbe rappresentare invece l'esempio di una donna libera ed emancipata, alle prese con uomini immaturi e infantili, coraggiosamente padrona del suo destino. 

Insomma, una storia ed un romanzo tutt'altro che ininteressante, pregevole come sempre nella cura di ogni snodo e del gusto pieno della narrazione. 

Fabrizio Falconi
riproduzione riservata - 2018

18/04/18

L’eremo della Mentorella sul Monte Guadagnolo e il genio di Athanasius Kircher (1602-1680)




 L’eremo della Mentorella sul Monte Guadagnolo e il genio di Athanasius Kircher (1602-1680) 
di Fabrizio Falconi


  
        La prima volta ci sono arrivato per caso molti anni fa.  Sulle tracce degli obelischi.
        Roma, per chi non lo sapesse, è la città al mondo che ne ospita di più. Gli obelischi egiziani -  la maggior parte dei quali molto più anziani di qualsiasi manufatto umano esistente nella ‘città eterna’ - sono ben tredici.   Alcuni assai famosi, come quello di Ramsete II, che svetta ancora in Piazza del Popolo, oppure quello scavato nelle cave di Assuan da Tutmosis III ben millecinquecento anni prima di Cristo. Altri ormai misconosciuti, come quello ‘capitolino’ lasciato ad ammuffire tra le erbacce di Villa Celimontana.
         E anche se oggi se ne parla solo quando si discute di ‘arredo urbano’ , c’è sempre qualcuno, per fortuna, che degli obelischi si interessa alla loro storia millenaria.
         Avevo letto in un libro di Cesare d’Onofrio, che al Collegio Romano esistevano ancora tracce di una antica e prestigiosa collezione di antichi modellini, in scala, degli obelischi egizi di Roma.
       Una mattina varcai la soglia del Liceo Visconti,  che oggi è ospitato nelle sale del Collegio Romano.  Erano appena finite le lezioni, pochi studenti bighellonavano nel cortile, all’ombra della grande torre. Chiesi indicazioni alla segreteria del liceo.   Una impiegata senza molta voglia di rispondere, mi rimandò all’ufficio del preside. Ma anche lui era assente. Una seconda segretaria, questa sua personale, mi chiese il motivo della visita.  Spiegai che stavo cercando la collezione dei modelli degli obelischi.
         La signorina, una donna corpulenta e bionda, dai tratti nordici, chiese di rimando:
         “ Quelli di Kircher ?”
         Non era la prima volta che sentivo quel nome, ovviamente.
         Ma quel giorno, si scatenò definitivamente la mia curiosità.  Anche perché la collezione risultò non visitabile.  I modelli degli obelischi – alcuni dei modelli, quelli superstiti -  mi spiegò la segretaria, effettivamente erano ancora lì, conservati sotto chiave, in alcune normalissime teche, nel sottotetto dell’edificio.  Ma per vederli bisognava disporre di una autorizzazione speciale, della sovrintendenza.
         “ Tra l’altro, “ aggiunse la segretaria, “ non glielo consiglio. Non è che siano tenuti molto bene, sa. Non capisco perché qualcuno non se ne occupi. Non li restauri, per esempio, e vengano esposti in un museo vero.  Qui combattiamo con gli studenti, non sa cosa sono capaci di fare quelli.”
         Ringraziai la ragazza, rimasi ancora un po’ a guardarmi intorno nel cortile dell’antico Collegio dei Gesuiti,  l’ombra dell’edificio l’aveva ormai occupato quasi interamente.
         Quello stesso giorno, anche se archiviata l’idea di vedere i modelli – troppo complicato -  riuscii ad ottenere la commissione di indagare – per conto di una rivista – su alcuni aspetti della vicenda terrena di Padre Athanasius Kircher.
         Sul conto del quale molto sapevo, ma altrettanto ignoravo.
       Illustre gesuita tedesco, massimo erudito, uomo per molti versi misterioso. Autore di bizzarre opere enciclopediche dai titoli solenni:  Ars Magna Lucis et Umbrae;  Itinerarium Exstaticum;  Phonurgia nova; Prodromus coptus sive aegyptiacus.   Avevo visto qualche giorno prima da vicino, nel Romani Collegii, uno dei pochi ritratti esistenti, il tondo con l’incisione del volto di Kircher: quella faccia incorniciata dalla barbetta bianca e dal tricorno nero, il naso imponente e dritto, gli occhi chiari e vispi, sullo sfondo consueto di quella che doveva essere la sua sterminata biblioteca.
        
      
 Uomo religioso, e allo stesso tempo grande scienziato, che  non esitava a farsi calare nella bocca del Vesuvio, per studiare da vicino la meccanica dei vulcani. Pio pastore, eppure anche intrepido esploratore dell’occulto, come di qualsiasi materia del conosciuto: dalla matematica alla geometria dei solidi, dallo studio delle lingue – copto, siriaco, egizio -  alla interpretazione dei simboli ermetici,  cultore di  numerologia, cartografia, ottica. Nel suo gabinetto delle scienze, al Collegio Romano – in quelle stesse  aule dove oggi stemperano le loro furie ormonali gli allievi del decaduto Liceo Visconti -  Athanasius Kircher realizzò tra le altre cose inventò il prototipo della lanterna magica;  una delle più antiche calcolatrici;  compilò la prima rappresentazione cartografica delle correnti marine; fu il primo ad osservare il sangue umano al microscopio; fu il primo a decifrare la grammatica copta, sperticandosi poi nella interpretazione dei geroglifici egiziani (trascrivendone i segni dagli obelischi romani ) e sbagliando quasi tutto, ma fornendo comunque intuizioni geniali senza le quali – probabilmente – non vi sarebbe stato nessuno Champollion.
    Alla ricerca di notizie e fonti, scoprii che la Vita Reverendi Patris Athanasi Kircheri, l’autobiografia scritta in latino da sé medesimo prima di morire,  avvincente come e più di un romanzo, è inedita in Italia. Ma  buone copie erano disponibili nelle biblioteche storiche dei gesuiti.
         Così, la prima volta che sfogliai le pagine della Vita, mi imbattei in quel formidabile incipit:
        Nacqui il 2 maggio 1602, giorno di Sant'Atanasio, alle tre della notte, nell'infelice città di Geisa, a tre ore di viaggio da Fulda. I miei genitori erano Johann Kircher e Anna Gansek, cattolici devoti, rinomati per le loro buone opere.
          Quell’incipit che pare  già tutta una promessa. E in quel nome – Athanasius, dall’aggettivo greco athànatos   l’evidenza di un destino. Athanasius, l’immortale ?  Ho cominciato a pensarlo, quando per l’articolo che dovevo scrivere ho cominciato a cercare la tomba di Kircher, a Roma. Si comincia sempre da lì, dalla tomba, in effetti, quando si vuol conoscere qualcosa di più dei segreti di un uomo.  E nel caso di Kircher, com’era consequenziale a tutta la sua vita, i segreti anziché dipanarsi, si sono moltiplicati.
           La tomba di Kircher, per quanti sforzi abbia fatto per cercarla, semplicemente non esiste più.
           Dovunque sia stato sepolto -  e io ho trovato numerosi documenti antichi che riportano tutti la stessa data e il luogo della sua morte,  Roma, 27 ottobre 1680 – nessuno sa più dire dove si trovino  i resti di quel corpo.   I documenti lo danno sepolto alla Chiesa del Gesù, come doveva essere ovvio per un personaggio di tal guisa, che all’epoca tutti conoscevano, che aveva lungamente collaborato con Gian Lorenzo Bernini alla realizzazione di alcune delle più grandi imprese del barocco romano – e che negli anni aveva allestito, proprio nelle sale del Collegio Romano uno straordinario museo di meraviglie, raccolte da confratelli gesuiti in ogni angolo del pianeta allora conosciuto, quel prodigioso Museo Kicheriano, purtroppo andato quasi del tutto perduto.
        Nessuno al mondo, in quel mondo vantava una collezione simile, con ogni sorta di reperti animali, esposti ed impagliati, con ogni specie di nuova invenzione ottica o matematica destinata a stupire i più blasonati visitatori delle corti di mezza Europa.

           
     Nessuno al mondo poteva conferire consulenze così preziose sulle opere da realizzare nella città museo del mondo, Roma. I mostri della Fontana dei Fiumi scolpiti da Bernini vengono lì, come viene da lì, naturalmente, tutto il complicato, esattissimo corredo simbolico del piccolo obelisco e dell’elefante, poco distante, il pulcino della Minerva commissionato da Alessandro VII, e scolpito da Ercole Ferrata. 
           Eppure, di un così tanto – e a giusta misura – celebrato personaggio, sorprendentemente, in nessuno dei registri anagrafici delle antiche chiese parrocchiali di Roma, conservati nella monumentale registeria storica del Vicariato di Roma,  esiste il certificato di morte e sepoltura di Athanasius Kircher. Sparito. O mai esistito.
           Perché ?
          Che fine aveva fatto quel certificato, che pure avrebbe dovuto risultare, se l’enciclopedico morì – come morì – a Roma ?  E soprattutto perché  nella Chiesa del Gesù, che conserva l’elenco minuzioso e completo di ogni sepoltura, non v’era traccia della tomba di Kircher ?
         Semplicemente, dopo qualche settimana di appassionante investigazione, e consultazione di ogni tipo di archivio, e di contatti fruttuosi con i maggiori studiosi di Kircher, in Italia e all’estero, dovetti rassegnarmi a concludere, che semplicemente la tomba illustre non si trovava, non c’era, non esisteva, e nessuno poteva dire  con sicurezza dove fosse stata una volta. 
            Quasi come se il corpo stesso dell’Athanasius,  si fosse volatilizzato, adattandosi al destino di quel nome.
            Ma le tracce di Kircher, in mancanza del corpo, non si rivelarono del tutto assenti.
            Almeno qualcosa restava.
            E qualcosa di non poco conto: il suo cuore.
            Come molti illustri contemporanei,  Kircher infatti, nelle ultime volontà, dispose per sé che, dopo la morte, il cuore fosse separato dal corpo, e deposto in un luogo a parte. 
            Quel luogo, lo aveva scelto con massima cura.
            Lessi  nella Necrologia alfabetica dei Padri Gesuiti, alla lettera K di Kircher:
            “ Il cuore è sepolto al Santuario della Mentorella, al Monte Guadagnolo.”
            Unica traccia riscontrabile. E, visto il precedente,  meglio verificare di persona.
             Così, un pomeriggio di agosto, ho preso con me una buona cartina stradale,  e in macchina mi sono diretto  fuori città, verso Sud, alla ricerca del Santuario, dove – come molti che abitano a Roma – non ero mai stato in vita mia.
           C’è anche una ragione.
          La Mentorella, pur essendo a un tiro di cannone dalla capitale, è  abbarbicata su un impervio sperone di roccia,  poco oltre Tivoli, sulla cresta del  Guadagnolo, nei monti Prenestini, che è alto milleduecento metri, eremo del tutto fuori dagli itinerari battuti dal turismo di massa.
           Si passa da Palestrina, città dalle nobili origini e dalla grande storia, poi la strada prende a salire su tornanti quasi del tutto spogli di vegetazione, da Capranica Prenestina fino alla cima del monte.  E arrivati al Passo della Fortuna, nome memorabile, laggiù in basso, a sinistra, ecco comparire il dorso di tetti rossi del Santuario.
        Varcato il cancello di ingresso, davanti all’ingresso della chiesetta, su un piccolo rialzo di roccia, una grande croce, moderna.   Di fronte, un altro ventaglio di rocce scoscese, dal profilo piuttosto familiare. 

        Parcheggiata la macchina di fronte al cancello di ingresso, e oltrepassatolo, si scopre subito un cartello verniciato, all’imbocco di un impervio sentiero che discende la montagna: Cammino Athanasius Kircher.
        Lo si capisce immediatamente: questo luogo deve molto a Kircher, ma la sua lunghissima storia non comincia certo con il padre gesuita, che in realtà si limitò a riscoprirlo, a restituirlo a nuova vita dopo secoli di totale abbandono.
        Ma la vicenda cristiana che si fonda sulla Mentorella  può vantare duemila anni di storia.   E comincia, mentre a Roma imperava Traiano,  con la prodigiosa visione dalla solida tradizione attribuita all’ufficiale pagano Placido, che in questa regione possedeva ville e terreni, nei quali esercitava la caccia, tra una campagna militare e l’altra.
        Un giorno fatale, a quell’ufficiale un po’ rozzo accade qualcosa di inspiegabile e anche di inconfessabile.  Tra le corna del grande cervo che sta per ammazzare, e che gli è apparso all’improvviso su una nuda roccia,  vede il volto di Gesù Cristo.  Una luce divina, così forte, una visione così ‘intollerabile’  che lo costringe a cambiare tutta la sua vita, da un momento all’altro.

La visione di Sant'Eustachio del Pisanello

        Torna a Roma, si fa battezzare come fanno i cristiani,  e cambia il nome in Eustachio.  Nella Roma efferata di quei tempi non rinuncia alla nuova fede, non  abiura.  Cosa che gli vale il martirio, prima risparmiato dalle belve feroci, poi insieme a mogli e figli, dentro un toro di bronzo arroventato.
         Sul posto dove apparve il cervo, sulla sommità della rupe, una semplice cappella. Pochi gradini per arrivarci, un piccolo campanile, con una corda che un bimbo si diverte a tirare, gli affreschi scrostati, e la massima visione sull’ampia valle del Giovenzano.
         E la storia prosegue.  Dopo Eustachio, il Santo, venne qui Costantino Imperatore. Impressionato dal sacrificio di Eustachio,  e a lui devoto, si dice, qui fece costruire un primo tempio. Del quale non restano che sparute colonne.

La visione di Sant'Eustachio del Durer
         
           In questo semplice, essenziale compendio di storia del cristianesimo – che è la Mentorella -  arriva poi il tempo del grande monachesimo d’occidente. Con il suo grande patriarca,  Benedetto da Norcia.  Fu abitata da lui, la piccola e bellissima grotta che si apre sotto la rupe di Eustachio ?   Le fonti dicono di sì.  E si fermò due anni interi, sembra, prima di andare a fondare il Sacro Speco.
          Due anni interi in questa grotta ?
          Per entrarci, oggi, ci si deve mettere di traverso, farsi accarezzare dalla roccia, in una fenditura strettissima, sorvegliata all’ingresso da ossa umane, in un tabernacolo incassato dentro la montagna.  Poi, all’interno, poche candele accese, un grande e spoglio crocefisso, un rosario, il silenzio che non smette di martellare le orecchie. 
          La memoria di San Benedetto non deve essere durata a lungo, nel lento oblìo medievale,  anche se si consolidò fino all’anno mille, e dopo, la decisione ripetuta e continua di assegnare il santuario alla pertinenza dei Benedettini di Roma. 


          Per la vera rinascita, però, bisognò aspettare altri secoli, fino all’anno del Signore  1661, quando il volenteroso gesuita di Fulda,  preso da una delle sue frenetiche ricerche storico-mistiche  – stavolta il trattatello si sarebbe chiamato Historia Eustachio-Mariana -  si avventurò da queste parti sulle tracce di Sant’Eustachio, e della miracolosa visione del cervo.
          Non è difficile indovinare il suo stupore, quando egli – con i mezzi dell’epoca, che possiamo immaginare – arrivando sulla cima del monte, in un posto dai molti crepacci come questo, scovò sommerse dagli arbusti le rovine di un antico e perduto tempio cristiano. Lo racconta lui stesso, nella Vita. La cosa che più lo sconvolse fu l’abbandono della veneranda statua della Madonna, che pure, come gli spiegò  la gente del luogo, si era resa protagonista, nel corso dei secoli, di ben evidenti prodigi.
           A Kircher non mancavano mezzi ed intelligenza. E conoscenze.   E in pochi anni rinnovò il luogo e il culto.  Istituendo anche una festa annuale, il 29 settembre, dedicata a San Michele Arcangelo, che cominciò a richiamare migliaia di fedeli ogni volta. Illustri protettori – grazie all’influenza del conosciutissimo e influente gesuita – presero a cuore le sorti del Santuario, da Maria Teresa d’Austria  al conte di Wallenstein, all’Imperatore Leopoldo I d’Austria, al Viceré di Napoli Pedro D’Aragona.
           Non solo. Kircher trasformò la Mentorella, nel suo eremo personale.
           Qui, soltanto qui, ritrovava la pace del cuore.  E il silenzio necessario ad approfondire i suoi studi, che intanto proseguivano fertili in tutte le direzioni. Un silenzio che al Collegio Romano era diventato merce rarissima.
           Così, ogni qualvolta c’era bisogno di lui, come quella volta che a Roma si ritrovarono finalmente giacenti sotto terra i pezzi del magnifico obelisco solare di Augusto, in Campo Marzio,  e solo a lui si poteva chiedere un parere,  bisognava mandare un messo fino alla Mentorella, e chiedergli di scendere in città.
          Sempre più recalcitrante, con l’avanzare della vecchiaia,  Kircher si disponeva a sopportare l’umida e stagnante aria di Roma, salvo tornarsene, il prima possibile,  nell’alto delle vette prenestine.
           Fino a quel 27 ottobre del 1680, quando la morte lo colse alla veneranda età di 78 anni. 
           Ed esattamente il giorno dopo, il 28 ottobre, per uno di quegli scherzi del caso che lascia allibititi, morì a Roma Gian Lorenzo Bernini. 
           Non è difficile supporre che i due eventi luttuosi, così ravvicinati, dovettero suscitare enorme eco a Roma. Kircher e Bernini, le due facce di una stessa trionfante, erudita, popolarità.
           Oggi, cosa resta di tutto questo ?  Alla Mentorella, forse è la suggestione ad indurre a pensarlo, resta molto. 
            Il Santuario, da un secolo e mezzo è custodito dai padri polacchi resurrezionisti. Da quando, nel 1857 i fondatori Semenenko e Kajsiewicz riuscirono ad ottenere da papa Pio IX la cura del Santuario, realizzando per prima cosa la strada di accesso, dal Passo della Fortuna al picco della Mentorella.
            Alcuni dei padri, giovani e silenziosi, li incontri oggi nel piazzale di ingresso. Ti salutano con un sorriso, e pregano soltanto di mantenere la quiete che il posto ha conservato miracolosamente nei secoli.  Ti raccontano sussurrando, che il loro Papa polacco, Giovanni Paolo II, pochi lo sanno, fece proprio qui la sua prima uscita, dopo l’inaspettata elezione al Soglio Pontificio. Era il 29 ottobre 1978, e ventimila persone – in maggioranza giovani – parteciparono insieme  a lui a quel memorabile pellegrinaggio. Questo luogo mi ha aiutato molto a pregare, disse una volta papa Wojtyla, e non è difficile crederlo, visto che qui tornò molte volte, anche fuori dell’ufficialità, durante il suo lungo pontificato.

Giovanni Paolo II alla Mentorella, 29 ottobre 1978

           Vi ritrovò forse quelle stesse caratteristiche ricercate a suo tempo da Kircher: pace, silenzio assoluto, raccoglimento, vicinanza al cielo e ai Misteri.
           Entrati nella Chiesa, un canto gregoriano appena udibile in sottofondo, accoglie insieme al senso di intimità e di purezza.
           Tre navate, la centrale più grande con capriate in legno. Preziosi reperti d’arte, ovunque.  Nella cappella di sinistra all’altare l’antichissima tavola di quercia, con la scena della consacrazione della Mentorella, che l’onnipresente Papa Silvestro I, secondo la tradizione, dovette dispensare.  E, sull’altare il ciborio del 1305,  con all’interno quella piccola statua in legno della Madonna, seduta con il Figlio in braccio,  che suscitò l’attenzione e la venerazione di Padre Kircher. 
           Ai suoi piedi, per esplicita volontà, egli volle che fosse deposto il suo cuore.
           Dunque basta spostare di poco lo sguardo, in terra, ed ecco, incastonata nel pavimento, la pietra che copre l’urna che cercavamo:
Leggo e rileggo l’iscrizione: ATHANASIUS KIRCHER SAC. SOC. IESU / TEMPLI HUIUS INSTAURATOR/ET SACRAE QUAE HEIC QUOTANNIS CELEBRATUR / EXPEDITIONIS AUCTOR / COR SUUM AD ARAE MARIAE D.N. PEDES / CONDI  VOLUIT  /  OBIIT. ROMAE A.MDCLXXX / AETATIS LXXX.


La lapide con l'iscrizione posta ai piedi dell'Altare della Mentorella che indica il luogo della sepoltura del cuore di Athanasius Kircher (foto dell'autore)

            Non solo il restauratore, quindi, ma anche l’ideatore e il promotore del nuovo rito di venerazione.  E poi: il cuore suo ai piedi dell’altare della Signora Nostra Maria.
            Un esempio destinato ad essere imitato, se è vero che spostandosi di poco all’interno della Chiesa, nel  pilastro di destra, si scopre un altro ‘cuore illustre’, quello di Papa Innocenzo XIII, che pur non essendo propriamente un amico dei gesuiti, destinò la parte più nobile di sé a fianco di quella di uno dei più celebri rappresentanti della Compagnia. 

L'urna murata con il cuore di Papa Innocenzo XIII alla Mentorella (foto dell'autore)


            Oggi, dissolta nell’aria la serenità immota di venti secoli, se non altro per la comodità dei collegamenti, arrivano quassù sparute comitive  di visitatori, gruppi parrocchiali in gite domenicali, e di scout attratti dal contorno naturalistico.  D’estate, il numero dei fedeli cresce,  diventa enorme la vigilia del giorno dell’Ascensione, il 14 agosto, quando una processione notturna di fiaccole illumina la cima del monte, portando in processione l’immagine del Salvatore. 
             I padri resurrezionisti ti confidano allora che il senso di quell’antico isolamento si ritrova solo in certi giorni d’inverno, quando i mezzi spazzaneve non hanno tempo di spingersi fino alla cima, e il Guadagnolo resta immerso nel silenzio del vento gelido che soffia senza ostacoli.
           In quei giorni, dicono, sporgendosi dalla Rupe di Sant’Eustachio, sulla sommità del Santuario, si apprezzano colori unici, e lo spettacolo pieno di stupore di un silenzio che sigilla le opere del creato con il loro Creatore.
             Athanasius Kircher, mistico e scienziato, scienziato e mistico, conosceva meglio di chiunque i segreti di quel silenzio.
             Nella seconda pagina della sua monumentale Ars Magna, scriveva:
             Le pianticelle che giacciono sepolte nel ventre dei loro semi, sotto lo sguardo del Sole, germogliano ebbre di gioia e presto sbocceranno in foglie, fiori, frutti.  Tutti gli animali, sospinti dalla gioia dei cieli, vale a dire dalla fertile radiazione di luce, sono stimolati, come da un sorriso, al piacere da movimenti fecondanti. Persino le rocce, remote come appaiono a ogni contatto con la luce, attratte da qualche forza di radiazione occulta, inturgidiscono, e nella loro tumescenza si abbracciano l’un l’altra, tutte unendosi alla danza delle sfere celesti.


Fabrizio Falconi 
Riproduzione riservata 2018 
testo estratto da: Fabrizio Falconi, Dieci Luoghi dell'Anima, Cantagalli, Siena, 2009

16/04/18

Il 21 Aprile, Natale di Roma, uno straordinario concerto al Mausoleo di Santa Costanza per celebrare il restauro dell'organo monumentale.




Il lavoro di restauro, ad opera della ditta Tamburini di Crema, ha previsto la rifusione e sostituzione delle canne piegate e pericolanti, il rifacimento dei cinque mantici, la sostituzione del motore e altri lavori di sostituzione, manutenzione e pulizia. 

Con l’aiuto di tanti fedeli e amici, della parrocchia e non, il complesso monumentale di Sant’Agnese riabbraccia così uno dei suoi elementi storici: l’organo - ma non solo… ricordiamo anche il nuovo sistema di riscaldamento elettrico della basilica e la sostituzione dell’organo elettronico nel Mausoleo di Costanza. 

Il Maestro Paolo De Matthaeis - organista della Basilica e del Mausoleo - suonerà alcuni celebri brani per organo, tra cui la celebre Toccata e Fuga in re minore BWV 565 di J.S.Bach, trascrizioni e brani. 

Si aggiungeranno gli Archi della Cappella Musicale Costantina per suonare insieme all’organo altre pagine famose come l’Adagio di Albinoni nella trascrizione di Giazotto per Organo e Archi, seguirà la trascrizione dell’Ave Maria di Gounod di Ettore Bonelli e una stagione di Antonio Vivaldi - L’Estate - perché proprio nella partitura originale il violinista veneziano volle specificare la presenza dell’organo. 

L’ultima parte del concerto - oltre alla presenza dell’organo - prevede la partecipazione dei solisti, del coro e del resto dell’orchestra fino al noto Alleluja di Haendel. 

PROGRAMMA 
organo solo 
J.S.Bach Preludio e fuga in mi minore BWV 533  
D.BuxtehudeCiacona in mi minore BUXWV 160 
J.S.BachAria in re maggiore 
J.S.BachToccata e Fuga in re minore BWV 565 

con l’orchestra 
T.Albinoni Adagio in sol minore per Organo e Archi 
C.Gounod Ave Maria 
A.Vivaldi Estate con il coro e con l’orchestra 
C.Franck Domine non secundum (offertorio) 
G.Caccini Ave Maria 
W.A.Mozart Dixit 
G.F.Haendel Alleluja dal Messiah 

Il concerto è previsto alle ore 20.15, dopo la Messa delle ore 19. L’ingresso è gratuito. 

Ci sarà al termine la possibilità di contribuire liberamente alla raccolta di fondi per completare il pagamento dei lavori di restauro dell’organo stesso.

15/04/18

Apre a Palazzo Braschi a Roma la magnifica mostra retrospettiva su Canaletto, fino al 19 agosto!


Giovanni Antonio Canal (Venezia 1697 -1768) noto come Canaletto, viene celebrato con una grande retrospettiva negli spazi espositivi del Museo di Roma Palazzo Braschi a Piazza Navona da oggi al 19 agosto 2018

La mostra "Canaletto 1697-1768", promossa dall'Assessorato alla Crescita culturale di Roma Capitale - Sovrintendenza Capitolina con l'organizzazione dell'Associazione Culturale MetaMorfosi in collaborazione con Ze'tema Progetto Cultura e a cura di Bozena Anna Kowalczyk, intende celebrare i 250 anni dalla morte del grande pittore veneziano presentando il piu' grande nucleo di opere di sua mano mai esposto in Italia: 42 dipinti, inclusi alcuni celebri capolavori, 9 disegni e 16 libri e documenti d'archivio. 

La mostra e' accompagnata da un ciclo di visite guidate gratuite per le scuole di Roma e della citta' metropolitana e da una serie di attivita' didattiche a pagamento per il pubblico non scolastico secondo questo calendario: sabato 14 aprile ore 16.30; sabato 28 aprile ore 17; venerdi' 4 maggio ore 17; sabato 12 maggio ore 11; domenica 27 maggio ore 11; domenica 3 giugno ore 11; venerdi' 8 giugno ore 17; domenica 17 giugno ore 17; giovedi' 21 giugno ore 17; venerdi' 6 luglio ore 17; sabato 14 luglio ore 11; venerdi' 20 luglio ore 17; domenica 5 agosto ore 11. 

Canaletto e' uno dei piu' noti artisti del Settecento europeo. Con il suo genio pittorico ha rivoluzionato il genere della veduta, ritenuto fino ad allora secondario, mettendolo alla pari con la pittura di storia e di figura, anzi, innalzandolo a emblema degli ideali scientifici e artistici dell'Illuminismo. 

Il suo percorso affascina e coinvolge. Dalla giovinezza tra Venezia e Roma come uomo di teatro e impetuoso pittore di rovine romane, al suo ritorno da Roma come stella nascente sulla scena delle vedute veneziane. 

Prosegue poi arrivando al successo internazionale, con le commissioni degli ambasciatori stranieri per le ampie tele che rappresentano le feste della Serenissima in loro onore - in mostra si puo' ammirare il magnifico 'Bucintoro di ritorno al Molo il giorno dell'Ascensione' del Museo Pushkin - e l'entusiasmo dei turisti inglesi del 'Grand Tour'. 

Per loro le luminose vedute di Venezia, cosi' ricche di dettagli architettonici e di vita quotidiana, rappresentano i piu' incantevoli souvenir del viaggio. 

Non mancano, pero', imprevisti e sfortune: a Londra deve pubblicare annunci sulla stampa per rispondere ad alcune voci denigratorie e, tornato a Venezia, viene eletto accademico delle Belle Arti con difficolta'. Infine, come accade a molti geni, la morte lo coglie in poverta'. 

Le opere in mostra provengono da alcuni tra i piu' importanti musei del mondo, tra cui il Museo Pushkin di Mosca, il Jacquemart-Andre' di Parigi, il Museo delle Belle Arti di Budapest, la National Gallery di Londra e il Kunsthistorisches Museum di Vienna. 

Presenti anche alcune opere conservate nelle collezioni britanniche per le quali sono state appositamente create e altre provenienti dai musei statunitensi di Boston, Kansas City e Cincinnati. 

Tra le istituzioni museali italiane presenti in mostra con le loro opere: il Castello Sforzesco di Milano; i Musei Reali di Torino; la Fondazione Giorgio Cini. Istituto per il Teatro e il Melodramma e le Gallerie dell'Accademia di Venezia; la Galleria Borghese e le Gallerie Nazionali d'arte Antica Palazzo Barberini di Roma. 

Tra i capolavori in mostra, oltre al gia' menzionato dipinto del Museo Pushkin, spiccano due opere della Pinacoteca Gianni e Marella Agnelli di Torino: 'Il Canal Grande da nord, verso il ponte di Rialto', e 'Il Canal Grande con Santa Maria della Carita'', esposti per la prima volta assieme al manoscritto della Biblioteca Statale di Lucca che ne illustra le circostanze della commissione e della realizzazione. 

Una sala ricca di prestiti eccezionali - dal museo di Cincinnati e da collezioni private - e' dedicata alle vedute di Roma che Canaletto realizza negli anni della maturita', sulla base dei propri disegni o delle stampe di Desgodets, Falda, Specchi e Du Pe'rac, alcune delle quali sono raccolte negli album provenienti dal Museo di Roma. 

Tra i dipinti, alcuni dei quali esposti per la prima volta in Italia, vanno menzionate le due parti di un'unica, ampia tela, raffigurante Chelsea da Battersea Reach, tagliata prima del 1802 e riunita in questa mostra per la prima volta. La parte sinistra proviene da Blickling Hall, National Trust, Regno Unito, quella destra dal Museo Nacional De Bellas Artes de la Habana, eccezionalmente concessa in prestito dal governo cubano. 

Accanto ai dipinti sono esposti 9 disegni, dai piccoli studi preparatori ai magnifici fogli di ampie dimensioni accuratamente rifiniti e destinati ai piu' raffinati collezionisti o a essere incisi, come 

L'incoronazione del doge sulla Scala dei Giganti, della serie delle Solennita' dogali, concesso in prestito da Jean-Luc Baroni Ltd. di Londra. La scelta e' intesa a illustrare la genesi delle creazioni dell'artista, svelando il lavoro "dietro le quinte", la sua capacita' di catturare la realta' e di trasformarla con la fantasia, facendo cosi' dissolvere l'immagine stereotipata di "Canaletto fotografo". 

Viene presentata la sua intera parabola come pittore e disegnatore per definirne le diverse fasi tecniche e stilistiche: dalla maniera libera e drammatica delle prime opere - sulle quali si e' posto un accento particolare - alle immagini piu' affascinanti di Venezia e a quelle eleganti del soggiorno di nove anni in Inghilterra, fino ai tardi, sofisticati capricci. 

Altro tema ricorrente in mostra e' l'indagine sul collezionismo delle sue opere. Il percorso, concepito come un vero e proprio dossier sulla personalita' e la creativita' di Canaletto, si snoda attraverso otto sezioni che raccontano il suo rapporto con il teatro, il capriccio archeologico ispirato alle rovine dell'antica Roma, i primi successi a Venezia, gli anni d'oro, il rapporto con i suoi collaboratori e l'atelier e la presenza del nipote Bernardo Bellotto (con alcuni precisi confronti tra le versioni del maestro e dell'allievo della stessa veduta), le vedute di Roma e dell'Inghilterra, gli ultimi fuochi d'artificio al ritorno a Venezia. Completano il percorso espositivo alcuni documenti dell'Archivio di Stato di Venezia. 

In occasione dell'esposizione viene pubblicato un ricco ed esaustivo catalogo, edito da Silvana Editoriale e a cura di Bozena Anna Kowalczyk, che include alcuni saggi sull'artista e la sua opera, presentando al pubblico e agli studiosi gli esiti delle piu' recenti ricerche storiche e archivistiche, cosi' come i risultati degli studi sulla sua tecnica e il suo metodo di lavoro.