23/04/14

90 anni di Mastroianni - Una bellissima intervista alla figlia Barbara .



Quest'anno il manifesto ufficiale del Festival del Cinema di Cannes, celebra un volto italiano. Lo vedete qui sopra. Quello di Marcello Mastroianni in Otto e Mezzo di Federico Fellini.  
Un grande attore che ha segnato una buona parte del cinema italiano della seconda metà del Novecento. Ma anche un uomo molto particolare, molto diverso dai divi del cinema molto meno fastoso (almeno quello italiano) di oggi.  Voglio dunque proporvi questa intervista bellissima realizzata da Andrea Purgatori per  Huffington Post a Barbara Mastroianni, una delle figlie di Marcello, che rievoca i ricordi sul padre. 


Che avrebbe detto papà del manifesto di Cannes 2014. Ah, si sono ricordati…”. Ride, Barbara Mastroianni, che di Marcello e Flora Carabella è la figlia. E di quel padre e di quella madre conserva i ricordi più belli e più segreti. “Scherzo. O forse, sì. La battuta l’avrebbe fatta. Mia sorella Chiara me l’aveva anticipato e io le ho detto: sono contenta del tuo entusiasmo e contenta lo sono anch’io. Però mica parliamo di un pivellino alle prime armi a cui hanno fatto il manifesto”.
Si fatica a immaginare che oggi Marcello Mastroianni avrebbe novant’anni. Ma la scelta di Cannes è perfetta. Marcello era proprio quello lì, un po’ nel ruolo e un po’ fuori, sempre disincantato, sempre ironico. E come se lo ricorda Barbara: “Leggero soprattutto, ma di quella leggerezza che non scivolava mai nella superficialità”.
D’altronde anche con l’Oscar non gli è andata bene. Lo sfiorò tre volte, senza mai prenderne uno. Nemmeno alla carriera. Forse è per quello che aveva appeso le nomination in bagno.
“Lo faceva per riderci sù. Gli piaceva avere dei riconoscimenti, ma se non arrivavano non ne faceva una malattia. Non era uno che esibiva i premi. Li teneva quasi tutti in bagno dentro un mobiletto, questo sì. E vicino alle nomination aveva appeso le foto con autografo di Barbara Streisand”.
Resta uno dei simboli del cinema italiano.
“Credo che con lui sia scomparso un gruppo di attori – Gassman, Sordi, Tognazzi, Volontè – che frequentavano generi diversi ma erano dei grandissimi. Io in giro non vedo calibri di quel genere”.
C’era anche una generazione straordinaria di registi.
“Certo, è tutto legato. Per carità, tanto di cappello ai professionisti di oggi. Ma se penso a papà, penso a tutti quelli che hanno cominciato a lavorare subito dopo la guerra. Un momento irripetibile o che si ripeterà con altri presupposti. Mi spiace dirlo ma adesso non è facile trovare un film che ti faccia correre al cinema”.
L’Oscar a La grande Bellezza?
“Ho provato un grande piacere per il nostro cinema. Una fotografia strepitosa, ma la storia non mi ha appassionato. Non perché papà avesse interpretato La dolce vita, ma forse è il modo diverso di raccontare che non mi ha preso. Anche se devo riconoscere che la società romana è proprio quella che c’è nel film”.
Il manifesto di Cannes celebra soprattutto un divo.
“La foto ironica di un sornione che sembra stia dicendo: “Oh, ma che state a fa’?”.

Mentre Marcello tutto era meno che un divo.
“Per me figlia ma anche spettatrice, e faccio fatica a scindere le due cose, la sua grandezza era soprattutto questa. Non era vanitoso e non si piaceva”.

Il complesso delle gambe troppo magre?
“Mica solo quello, da giovane si vedeva la bocca troppo carnosa… sì, certo che sapeva di non essere brutto ma non aveva il mito di sé stesso. Neanche un po’”.
Le donne non ci facevano caso.
“E a lui piacevano. Ha avuto storie importanti con donne molto belle. Ma sempre in maniera elegante. Ecco, non era un uomo volgare mio padre. Ma forse potrei dire anche delle piccole cose negative”.
Ad esempio?
“La sua grande pigrizia, che poi era solo una pigrizia fisica. Gli dicevi di andare a fare una passeggiata e la cosa non è che lo facesse impazzire”.
S’addormentava al cinema, dal dentista, al trucco.
“Quando s’ annoiava s’addormentava ovunque. A teatro l’ho visto quasi russare in uno spettacolo dove mia madre recitava insieme a Paolo Panelli. Episodio da cancellare”.
Era anche un uomo eternamente in fuga. Bastava che gli offrissero un film fuori dall’Italia e partiva, non importava per dove.
“Non solo per scappare dalle sue beghe amorose. E’ che adorava viaggiare. Era curioso di conoscere un posto diverso, una cucina diversa… e ogni tanto aveva bisogno di staccare dall’aria di casa. Si definiva un po’ un apolide, comunque un italiano strano. Un cittadino del mondo”.
Gran buongustaio.
“Gli piaceva mangiare, sì. Magari poco, ma bene”.
E si sottoponeva a diete pazzesche.
“Era soprattutto Fellini a costringerlo. Infatti nei suoi film raggiungeva sempre quel peso giusto che lo aiutava ad essere più fascinoso, e anche un po’ scavato”.
Faceva la dieta, poi mangiava di nascosto?
“No, su quello era severo. C’era un posto a Merano dove andava con gli amici, e lì più che passati di verdura non gli davano. Però il pomeriggio uscivano, si sedevano in un antico caffé, ordinavano un tè senza zucchero né latte e annusavano quello che mangiavano le signore: pasticcini, torte, biscotti…”.
Com’era il suo rapporto speciale con Parigi, dove ha trascorso anche gli ultimi giorni?
“La amava moltissimo, ovviamente anche per la presenza di un’altra figlia. Roma era la sua città ma c’erano delle cose che proprio non gli piacevano. Cominciando dalla volgarità. Ad ogni passo lo fermavano: A Marcé, come va? A Marcé, famme l’autografo… La romanitudine gli dava molto fastidio. Mentre a Parigi si sentiva in incognito. Diceva: io mi siedo al bar, prendo un caffè, leggo il giornale e non succede niente. Poi magari qualcuno lo riconosceva ma capitava una volta ogni cinque giorni. E questa discrezione lo faceva stare bene. Oggi credo che non sarebbe stato felice di vivere qui”.
Con tutti i cellulari, le foto, sarebbe diventato matto…
“I cellulari li detestava. Li ha regalati a tutti, ma lui non ne voleva sapere. Era ancora uno da gettone. Neanche la scheda telefonica, il gettone”.
Come era cambiato nell’ultimo periodo della sua vita?
“Stava male, e questo l’aveva fatto diventare molto malinconico. Lo vedevo poco ad essere sincera, era quasi sempre a Parigi. Ma era affaticato, aggrappato alla vita e indurito. Una volta stavamo guardando la televisione e all’improvviso si irritò. Io gli dissi: dai papà, che t’importa? E lui, alzandosi, mi rispose: da quando sto male non sopporto più di sentir parlare di stronzate! Prima ci avrebbe scherzato sopra, ma la vita stava sfuggendo e non aveva più voglia di scherzare”.
Un uomo di gusto come lui non sopportava il chiacchiericcio.
“Lo trovava volgare. Detestava la volgarità in tutto: nel vestire, nel parlare, negli atteggiamenti. Negli ultimi due anni si sentiva un marziano”.
E del momento del suo massimo successo, cosa ricordi?
(ride) “Che non c’era mai”.
Provo a ricordare io: un dopo cena con Marcello che canta ‘O sole mio insieme a Mstislav Rostropovich, forse il più grande violoncellista del secolo scorso, a sua moglie Galina e a tua madre.
“I russi lo divertivano molto, aveva una grande simpatia. Per lui erano un po’ come i napoletani. Infatti se andava lì a lavorare si trovava benissimo. Credo che quando ha girato Oci Ciornie con Mikhalkov ne abbiano fatte di tutti i colori. Se scattava la complicità col regista, funzionava anche fuori dal set. Con Fellini poi ha raggiunto l’apoteosi. Si vedevano poco, però si capivano con un’occhiata”.
Aveva la mania di aprire continuamente cantieri dentro casa, vero?
“Ristrutturava in continuazione, si vede che gli era rimasta l’impronta del perito edile. Come c’era un problema nelle case che avevamo, grazie al cinema, lui si proponeva subito: qui apriamo, qui buttiamo giù… a me e a mia madre dava sui nervi avere tutti quegli operai sempre tra i piedi, ma devo dire che ci azzeccava. Invece dell’arredamento non gliene importava niente. La sua camera sembrava quella di uno di passaggio, coi quadri poggiati per terra. Gli bastava l’essenziale: letto, comodino e un tavolo. Ma la scala della casa di Castiglioncello l’ha demolita e ricostruita tre o quattro volte in un anno e mezzo”.
Si racconta che abbia modificato anche una finestra della casa che aveva a New York, che poi era l’unica diversa in tutto il grattacielo.
“Questa l’ho sentita, e qualcosa deve averla combinata per forza. Magari non si apriva del tutto e lui, che era caloroso, l’avrà fatta cambiare per avere più aria”.
Quante volte hai lavorato con tuo padre?
“Tre, come costumista, in Per le antiche scale di Mauro Bolognini, Il Mondo Nuovo di Ettore Scola e Le mani sporche di Elio Petri. Vederlo sul set mi ha emozionato. Soprattutto nel lavoro di Petri per la televisione, che si svolgeva in tre stanze ed era costruito sulla recitazione. Non ho mai capito come e quanto si preparasse, ma so che aveva poca memoria, o almeno così diceva. Poi la sera si andava a cena e francamente non lo vedevo studiare le scene per il giorno dopo. Invece quando davano il ciak, ricordava tutto e se gli sfuggiva un passaggio era capace di improvvisare con una naturalezza impressionante. Mi colpì, ammetto”.
Che eredità è essere la figlia di Marcello Mastroianni?
(ride) “Qualche volta m’hanno pure chiesto l’autografo. E io a spiegare: guardate che non vale niente. Però quando si emozionano perché mi collegano a papà provo grande tenerezza. Sul piano caratteriale mi ha lasciato delle cose belle: ad esempio l’essere riflessiva, positiva. E’ stato un padre anomalo, ma fraterno. Il nostro rapporto è cresciuto nel tempo, come la complicità. Poi ci sono cose che non racconto perché sono mie, ma mi hanno fatto scoprire la sua personalità, la sua natura. Mi manca tantissimo in certi momenti, mi manca la sua ironia…”.
Che è quella del manifesto: non prendiamoci troppo sul serio…
“Ma per carità, mai si prendeva troppo sul serio”.

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