04/07/13

Cari psicoanalisti, leggete King. Un intervento di Emanuele Trevi sul Corriere della Sera.



È abbastanza comune affermare che per amore si arriva a delirare, eppure il desiderio e il delirio, in quell’assurdo labirinto che è la mente umana, possono anche diventare feroci antagonisti. Chi nega o in qualunque modo scaccia dalla coscienza il proprio desiderio, sta già delirando. E non c’è energia mentale più potente, si direbbe, di quella dell’errore e dell’autoinganno. Per certi individui, rivelare a se stessi ciò che veramente amano è l’impresa più difficile. Tale è il loro orrore della verità, che sono capaci di costruire interi mondi fittizi per seppellirla più a fondo che possono. Ma più di tanto, per quanto si sforzino, non possono. Ed è qui che cominciano i guai. Tra i narratori più efficaci di questa ingegnosa trappola psicologica, il prolifico Wilhelm Jensen occupa un posto del tutto particolare. Da poco ristampata con le bellissime illustrazioni di Cecilia Capuana Gradiva (Donzelli) è l’unica sua opera, tra le decine che ne scrisse, ad essergli sopravvissuta. Lo scrittore tedesco pubblicò questa fantasia pompeiana, come la definì, nel 1903, quando era già avanti con gli anni e all’apice di una vasta ma effimera fama.

Sarebbe un vero peccato se anche Gradiva fosse scivolata nell’inesorabile gorgo dell’oblio. A rileggerlo oggi, questo breve romanzo sentimentale-archeologico, mascherato da storia di spettri, conserva una notevole forza di persuasione. Com’è noto, però, a garantire all’opera la sua durata nel tempo non furono né i lettori di narrativa né i critici letterari, ma l’interesse, quasi vampiresco, di Sigmund Freud. È questa circostanza a rendere del tutto eccezionale la fortuna dell’operetta di Jensen. Fu Carl Gustav Jung, nell’aprile del 1906, a mettere in mano a Freud Gradiva. Erano ancora lontani, Freud e Jung, dalla clamorosa rottura del 1912. Erano i tempi eroici della Società di Vienna, e quegli eccezionali speleologi procedevano solidali, come fossero legati in cordata, nei cunicoli e nelle voragini della coscienza umana. Le loro idee provocavano una generale diffidenza, che rafforzava la solidarietà fra gli iniziati. Ad ogni modo, il romanzo di Jensen, intessuto com’era di fantasie deliranti e sogni rivelatori, e pervaso da una potente corrente erotica, fece letteralmente balzare Freud sulla sedia. Durante le vacanze estive, trascorse come d’abitudine all’Hotel du Lac di Lavarone, Freud si mise all’opera componendo quello che sarebbe destinato a rimanere uno dei suoi saggi più limpidi e belli, intitolato Il delirio e i sogni nella «Gradiva» di W. Jensen, pubblicato la prima volta nel 1907. Quando si dice (giustamente) che Freud è un grande scrittore, è a testi come questo che bisogna pensare. Dando fondo alle sue innate qualità di narratore Freud riscrisse Gradiva creando quello che Giorgio Manganelli avrebbe definito un «libro parallelo». Ci si può rendere conto del valore e dell’importanza dell’impresa servendosi di un vecchio ma utilissimo libro curato nel 1961 da Cesare Musatti, intitolato Gradiva, che ristampa insieme il romanzo di Jensen e il saggio di Freud, accompagnati da un intelligentissimo commento.

L’interesse dell’autore dell’Interpretazione dei sogni per le avventure italiane del giovane archeologo tedesco Norbert Hanold è più che giustificato. La sua è una vicenda che rende manifesto, in modo molto più efficace di qualunque trattazione scientifica, il funzionamento della rimozione, che dei meccanismi della psiche umana è il più pericoloso e gravido di conseguenze. L’eroe di Jensen ha consacrato l’esistenza alla sua unica passione, l’archeologia. Solo al mondo, le uniche figure femminili che ha considerato sono fatte di marmo e di bronzo. E di una di queste figure arriva addirittura a innamorarsi. O perlomeno, così lui stesso crede che vadano le cose. Si tratta, ad ogni modo, di un’opera d’arte realmente esistente, e conservata ai Musei Vaticani: il bassorilievo di una fanciulla velata che cammina, dirigendosi chissà dove, sollevando con la mano un lembo della veste. L’elemento più notevole della figura è la posizione del piede destro, sollevato in maniera quasi perpendicolare al suolo. È questo particolare che genera in Norbert una vera ossessione per l’opera così leggiadra di un ignoto artista greco, da lui ribattezzata Gradiva, «colei che avanza», versione femminile dell’epiteto che in latino accompagnava abitualmente Marte.

Un misterioso concatenarsi di sogni e premonizioni induce Norbert a partire da un giorno all’altro per l’Italia, finendo per cercare le tracce della Gradiva tra le rovine di Pompei. E in effetti, la incontrerà, ma in carne ed ossa. Ma non si tratta di uno spettro autorizzato a vagare nella luce del sole nell’ora meridiana, come crede il giovane archeologo, ma della ben concreta e viva Zoe Bertgang, vicina di casa di Norbert e sua amica d’infanzia, ben decisa a sposarlo. È questo personaggio femminile l’invenzione più riuscita di Jensen, e la sua strategia finisce per affascinare Freud molto più dei sintomi di Norbert. Zoe comprende al volo che il giovane non solo l’ha totalmente dimenticata, ma la crede un fantasma del passato, morta a Pompei nell’eruzione del Vesuvio del 79 dopo Cristo. Ma la peggiore strategia da usare con un delirante è quella di sbattergli in faccia la realtà, nuda e cruda. Per tirare a sé Norbert, serve una lenza più sottile. Sarà necessario accettare il particolare ordine di realtà in cui vive Norbert, e aspettando di scardinarlo, prestarsi al ruolo del fantasma della fanciulla pompeiana morta sotto le ceneri del vulcano.

Emanuele Trevi

Fonte: Corriere della Sera


È fin troppo ovvio osservare come questa tecnica di guarigione finisse per affascinare Freud molto più dei sintomi del delirio e dei sogni di Norbert. Si può dire, senza paura di esagerare, che quella di Gradiva agli occhi di Freud sia un’allegoria non meno importante di quella di Edipo. Se Edipo è l’immagine più universale dell’uomo afflitto dalla nevrosi e imprigionato dai suoi sintomi, ebbene Gradiva, in questo stupendo teatro di marionette preso a prestito dalla letteratura, rappresenta tutte le virtù di colui che, seduto all’altro capo del famoso divano, tiene fra le dita il filo, fragile e prezioso, della guarigione. Scaltra, seducente, dotata di empatia a capacità intuitive, Gradiva è la santa patrona di tutti gli strizzacervelli a venire. Con l’importante differenza, però, che sia Freud che Musatti tengono molto a segnalare, che se Zoe alla fine del romanzo convola a giuste nozze con il suo stordito Hanold, non altrettanto possono fare l’analista e il suo paziente, che dovrà scegliere un reale oggetto d’amore una volta emerso dalle ceneri pompeiane della rimozione.

Chiuse le due Gradive, quella di Jensen e quella di Freud, il lettore d’oggi potrà provare un senso di malinconia, considerando quanto sia ormai diventata profonda e irreversibile la separazione fra psicoanalisi e letteratura. È come se la prima, tutta affannata a conquistarsi i suoi galloni scientifici, abbia deciso di volgere le spalle, con una buona dose di ingratitudine, a quell’inaffidabile e ciarliera sorella. È vero che moltissimi libri contemporanei di psicologia sono letteralmente infarciti di citazioni letterarie e cinematografiche. Ma le citazioni, per loro natura, sono frammenti e relitti. Vengono facilmente piegate alle finalità del discorso che le ingloba. Lampeggiano nella loro bellezza e vengono rapidamente dimenticate. Non producono mai immagini totali, capaci di segnare le svolte della conoscenza. Lo psicoanalista, sbagliando, non si sogna più di andare in cerca di nuovi Edipi e di nuove Gradive nei libri di Stephen King, o di Richard Ford, o di José Saramago. E anche la letteratura ha una buona parte della colpa. Saccheggiando da un secolo la psicologia del profondo, ha perso ogni forma di innocenza. A uno psicologo di oggi, non può che fornire l’idea di una minestra riscaldata. Mentre l’entusiasmo di Jung e Freud per Gradiva dipendeva in buona parte dal fatto che Jensen, pur essendo arrivato così vicino alle loro scoperte, non avesse mai nemmeno sfogliato L’interpretazione dei sogni.

Per cercare le sue conferme più importanti, la scienza della psiche preferisce ormai battere i più severi sentieri della statistica, della biologia, delle scienze cognitive. Si potrebbe dire che, come il giovane Hanold di Jensen aveva rimosso la sua Zoe, illudendosi di amare una statua antica, così la psicoanalisi ha rimosso il potere simbolico, la forza di persuasione della grande letteratura. Ma tutte le rimozioni, lo insegna la scienza stessa, si trasformano in sintomi ben peggiori di ciò che si sotterra. Rischiano, insomma, di trasformare in deliri anche i saperi più complessi ed accademicamente corazzati.

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