30/10/11

Il sesso, la roba e Boccaccio: intervista a Vittore Branca.



Einaudi presenta un progetto grandioso e già più volte vagheggiato, quello di un "Boccaccio visualizzato" in due volumi, che rappresenterà un importante passo avanti per la definizione dell'influenza del Boccaccio nella storia dell'arte.   All'opera la cui uscita è prevista nel '91, sta lavorando da molto tempo Vittore Branca, uno dei massimi conoscitori mondiali del Boccaccio, che coordina una imponente équipe internazionale di filologi e storici dell'arte.

"Boccaccio è l'autore che più di ogni altro ha sollecitato gli artisti visuali, xilografi, pittori, miniaturisti..." spiega Branca, che nella sua casa veneziana, è alle prese con le riproduzioni di più di milleduecento illustrazioni e miniature raccolte nelle biblioteche di tutto il mondo.

"La ripresa di interesse del Boccaccio a livello mondiale non mi stupisce" continua Branca, "il Decameron è l'opera che seicentocinquanta anni fa ha affrontato i due temi più presenti nell'età moderna: il sesso e la roba, cioè il possesso.  Per questo è con Dante, il classico italiano più tradotto, più di Machiavelli, che è troppo aristocratico. Il rapporto parola-immagine era per il Boccaccio assolutamente fondamentale" spiega ancora Branca, "al punto che nell'autografo del Decameron, che io stesso identificai 28 anni fa, è proprio lo stesso autore a voler illustrare di mano propria il suo capolavoro."

Da allora in poi molti, da Botticelli a Giorgione, da Tiziano a Palma, da Veronese a Blanchard, a Rubens, dovettero percepire la forza esplosiva delle immagini contenute nella prose dell'opera, rivoluzionando molti dei vecchi archetipi dell'immagine pittorica.

Ma non tutti sono d'accordo sull'effettiva portata delle innovazioni contenute nel Decameron. E questo è proprio il segnale di una intramontabile attualità del dibattito intorno al novelliere. Proprio recentemente Giampaolo Dossena, nella sua Storia Confidenziale della Letteratura Italiana, arrivata al secondo volume, ha fatto risorgere vecchie e interminabili questioni, affermando che almeno metà delle novelle del Decameron sarebbero 'mediocri'.

Niente di più di una provocazione, secondo alcuni: fatto sta che di Boccaccio si torna a discutere e anche con un apparente piacere.  Al punto tale che, dopo qualche indugio, il Decameron approda in lettura integrale alla radio.  L'opera, curata da Alberto Asor Rosa e Adolfo Moriconi, è infatti in fase di ultimazione negli studi della RAI di Firenze e verrà trasmessa questa estate, nella divertita lettura di numerosi intepreti: da Valeria Moriconi a Davide Riondino, da Paolo Poli a Giorgio Albertazzi.

"Il Decameron è il libro che fonda tutta la nostra letteratura," dice Paolo Gonnelli, direttore di Radiotre, che ha prodotto l'impegnativa operazione, "ma è un libro poco letto. Per questo abbiamo deciso di ripetere l'esperimento già tentato con la lettura integrale della Divina Commedia, che ci ha dato notevoli soddisfazioni."

Reggerà il Decameron alla prova radiofonica ? Non è la prima volta, in effetti, che tra le perplessità dei filologi, l'opera si trova a dover sconfinare oltre l'ambito letterario: sono ormai innumerevoli le riduzioni cinematografiche, molte delle quali addirittura iconoclaste, come quelle dei B-movies dichiaratamente licenziosi, così come le molte "traduzioni" da versioni modernizzate, in circolazione nei mercati esteri. Ma alla prova definitiva, la prosa del Boccaccio, ha mostrato sempre segni di sorprendente vitalità.

"Credo che il Decameron rappresenti il primo esempio nel quale, in letteratura, gli uomini vengono raffigurati come sono davvero e non come vorrebbero essere", dice Vittore Branca, che non riesce a trattenere l'entusiasmo di fronte all'immagine di uno splendido quadro del Botticelli che ha sotto gli occhi, "Nastagio e la caccia infernale," conservato al Museo del Prado di Madrid.  E' l'illustrazione di una novella del Decameron, raccontata nella quinta giornata.

"Un capolavoro come questo ha una storia antichissima", dice Branca, "perché proprio Botticelli ci ha aiutato a capire che nella novella si nascondeva un mito antichissimo, quello di Atteone. Ma solo Boccaccio poteva raccontarlo così, e Botticelli ha dato espressione a questa narrazione realistica, incredibilmente visuale."

Fabrizio Falconi, "Superboccaccio",  Il Manifesto,  domenica 1 aprile 1990.



29/10/11

E' morto James Hillman .



E' morto ieri a Thompson, USA, il grande James Hillman.

Non esito a definirlo una delle 'grandi anime' che ha attraversato il Novecento (e questi primi anni del Duemila).  Sono sicuro che il suo pensiero rimarrà, e sarà anche fondamentale per com-prendere qualcosa in più di noi stessi, di quello che siamo, che siamo diventati, e in cui possiamo trasformarci.

Hillman si è battuto una vita intera - formandosi nell'alveo del pensiero junghiano - per mettere in luce come sia necessario, oggi più che mai indispensabile, liberare l'anima dalla prigione dei concetti che la opprimono, di tutti i pensieri, false culture, dogmi, che impediscono all'anima di ciascuno di noi di librarsi e di ottenere la pienezza invocata, che è lo scopo primario (anche se non riconosciuto e negato) di ogni esistenza.

Hillman insisteva sulla necessità di riprendere un linguaggio più arcaico e più ricco - il linguaggio dell'anima dell'uomo è sempre lo stesso, nei secoli - e di recuperare un contatto più autentico con quello che chiamava il linguaggio di Venere.  


Gran parte dei mali del nostro tempo, sosteneva Hillman, nascono proprio da questa incapacità di andare in fondo, di rompere la breccia di esistenze costituite su necessità inautentiche, di ritornare ad ascoltare la voce dell'anima, il codice di quella ghianda che è insita dentro di noi, che soffre per noi, che parla, che vuole farsi ascoltare e che noi spesso facciamo di tutto per NON ascoltare.

"Questa cultura" scriveva ne Il linguaggio della vita, intervistato da Laura Pozzo,  "ci vuole maniacali: iperattivi, spendaccioni, consumisti, spreconi, chiacchieroni, pieni di idee che ci saettano nella mente senza fermarsi perché per non riuscire noiosi non ne approfondiamo nessuna; così anche il senso della tristezza va perduto."

Ci mancherà Hillman, anche se riempiremo il vuoto con la profondità eloquente del suo capolavoro, Il codice dell'anima e degli altri capolavori che ci ha lasciato.

Qui il video-intervista IL SENSO DELLA VITA, realizzato da Silvia Ronchey qualche anno fa. 


27/10/11

Robert Pogue Harrison - prefazione a 'Poesie 1996-2007'





Prefazione di Robert Pogue Harrison al volume Poesie 1996-2007 di F.Falconi, Campanotto Editore, 2008.

Il filosofo americano Ralph Waldo Emerson inizia il suo saggio L’esperienza  con una domanda:  “dove ci troviamo?”  È una domanda disorientante, innanzitutto a causa dell’uso della prima persona plurale.  Questo “ci” si riferisce ad un soggetto collettivo impersonale?  Alla comunità dei lettori di Emerson?  Ai suoi compatrioti?  È solo quando si arriva alla fine del saggio che si comincia a capire che pochi di noi si fanno questa domanda in modo serio, sin quando non riusciamo a renderci conto del fatto che siamo, in effetti, persi.



26/10/11

La morte secondo Steve Jobs. Una riflessione.




Mi ha molto colpito leggere nei giorni scorsi l'intervista realizzata dal Corriere a Walter Isaacson, l'autore della corposa biografia di Steve Jobs conclusa pochi giorni prima della sua morte, e data alle stampe a tempo di record. Mi hanno particolarmente colpito i passaggi nei quali Jobs parla a cuore aperto della morte e dell'oltremorte, dei suoi dubbi e delle sue speranze.

Riporto i passaggi salienti. 

«E' fifty-fifty" mi diceva. "Cinquanta e cinquanta. A volte credo che Dio esista. A volte no. Vorrei credere nella vita ultraterrena. Ma ho il timore che alla fine ci sia solo un tasto on-off. Un clic, la luce se ne va. E tu non ci sei più. Per questo non mi è mai piaciuto mettere tasti di accensione sui prodotti della Apple"». i tormenti di Steve Jobs, il suo interrogarsi sull'aldilà. 

È la prima intervista concessa a un giornale italiano dopo aver consegnato all'editore (in Italia Mondadori) la sua biografia del fondatore della Apple. 

Abbiamo già letto molte anticipazioni del suo libro, ma poco del temperamento irascibile di Jobs, i tratti duri del suo carattere. Quanto a Dio, l'aveva evocato parlando di musica. Lui, che aveva riempito il suo iPod coi brani di Bob Dylan, i Beatles, Joan Baez, i Rolling Stones e Yo-Yo Ma, una volta disse al violoncellista franco-cinese: «Le tue esecuzioni sono la migliore prova dell'esistenza di Dio perché non credo che un essere umano da solo possa fare tutto questo». 

«Con me Steve cominciò a parlare di Dio man mano che prendevamo confidenza e che la malattia riguadagnava terreno. Non era paura, si interrogava: "Voglio credere nella vita ultraterrena" mi diceva, "perché questo fa parte della mia formazione buddista. Tutta la saggezza che hai accumulato, la tua conoscenza non svanirà nel nulla quando tu non ci sarai più". Poi, però, veniva assalito dal dubbio che alla fine della vita ci sia solo un "off switch"». 

Credo che sia difficile, molto difficile trovare una migliore esposizione, in poche righe - S.Jobs era del resto un uomo di intelligenza superiore - dell'impasse nel quale si dibatte e si ritrova l'uomo contemporaneo, di fronte ai cosiddetti ultimi: la morte, la vita dopo la morte, il senso della vita, il nulla o Dio.

Decaduto il principio di fede, persi per strada i cammini iniziatici, disintegrati i dogmi di qualunque tipo, l'uomo occidentale si trova sempre più in bilico tra speranza (cuore) e disperazione (ragione).  Tra voglia di affidarsi ad una speranza ultraterrena (Dio) e paura/terrore di un nulla profondo, tra annichilimento e permanenza di ciò che sei stato.

Il tasto on-off al quale si riferisce Jobs è quanto mai simbolico ed in effetti solo ora mi spiego perché le sue meravigliose diavolerie elettroniche non prevedano un tasto di spegnimento, ma solo un eterno stand-by. 

Il tasto dell'i-pod switcha e... basterà sfiorare nuovamente l'apparecchio perché la musica desiderata, la storia meravigliosa, torni a srotolarsi nuovamente dal punto in cui era stata interrotta.  Riporto qui un estratto dal libretto di istruzioni apple:

Spegnere iPod 
Non esiste un vero e proprio tasto Stop (spegnimento) per iPod. iPod può essere messo in pausa e dopo qualche minuto di inattività si spegne da solo, entrando in una fase denominata Sleep, seguita dalla fase Deep Sleep (dopo 36 ore di inattività). 


Metafora migliore, nessun mistico sarebbe riuscito a trovarla.

E forse non è un caso che a realizzarla sia stato il 'padrone dei sogni tecnologici', proprio lui.



Il nostro incontro.







Il nostro incontro


Il nostro incontro
non era in agenda, era scritto
in nero sui muri, era nuvola
di passaggio, era una melodia
dalla finestra, era un piccolo
e sconfinato panorama che si chiude
col silenzio delle imposte.


 Il nostro incontro
 rasentava la sera del giorno
 prima, svernava ai tropici
come un uccello fuori rotta,
si vergognava di sé,
come un luogo comune,
o un interrogativo all'inizio della frase.


 Il nostro incontro
era un possedimento inutile,
o una nota incantata,
eppure il nostro incontro
è apparso tanto tempo fa, un giorno,
ha illuminato la vita di senso,
e non è ancora tramontato.



 Fabrizio Falconi 2009  © tratta da Il respiro di oggi, Terresommerse, Roma, 2009. 



24/10/11

'La quistione ancora ne pinde.' Una lezione moderna da Boccaccio.


C'è una bellissima favola. "La favola dei tre anelli", che Boccaccio racconta nel Decameron, e che ci dice molte cose, incredibilmente, anche sugli estremismi religiosi e sul relativismo di oggi, ma anche sul conflitto tra civiltà, che va tanto di moda sbandierare. La favola è antichissima, e secondo Renan è di origine islamica: viene dai tempi del sufismo nei tempi della dominazione araba in Andalusia.

La favola narra dunque di Saladino, che chiamato al suo cospetto un grande saggio ebreo, gli chiede quale sia a suo parere fra le tre Leggi - quella di Mosè, quella di Gesù e quella di Maometto - la vera. Il saggio ebreo gli risponde con questa favola.

Un uomo aveva un anello preziosissimo, passato nella sua famiglia di generazione in generazione. 


Poco prima di morire, non volendo fare torto a nessuno dei suoi tre amatissimi figli, si fa riprodurre da un orafo due copie dell'anello originale, e muore, lasciando credere a ciascun figlio di essere lui l'erede dell'anello. 


Ed ecco la conclusione di Boccaccio: " E così vi dico, Signor mio, delle tre Leggi alli tre popoli dati da Dio Padre, delle quali la quistion proponeste: ciascuno la sua eredità, la sua vera Legge, e i suoi comandamenti si crede aver a fare; ma chi se l'abbia, come degli anelli, ancora ne pinde la quistione." 

Volendo meditare questa favola, e la sublime conclusione di Boccaccio, la prima cosa che viene in mente è che essa contiene un profondo messaggio sia contro il fondamentalismo dogmatico, sia contro il relativismo etico, che oggi sembrano essersi spartiti il dominio del mondo. 

Contro il relativismo, perché... l'anello vero ESISTE ! E il padre sa quale è ! Contro il fondamentalismo dogmatico: perché.... Solo il padre - ovvero Dio ? - sa quale è l'anello vero, la certezza più in generale, il riconoscimento, cioè la certezza umana, è sempre fallibile e provvisoria (ovviamente escludendo la rivelazione, che si basa appunto su una 'rivelazione' di fede agli uomini) perché ... come dice Boccaccio, in modo sublime la questione 'ancora ne pinde', cioè la questione è ancora in sospeso. 

Ciò non vale ovviamente solo per il fondamentalismo dogmatico RELIGIOSO. Ma anche per il fondamentalismo dogmatico PRAGMATICO-SCIENTIFICO: Anche nelle scienze sarebbe pazzo chi credesse un giorno di aver finito la ricerca, di aver esaurito la verità. Anche nelle scienze, come per ogni altra questione umana, "la quistione ancora ne pinde."

21/10/11

Nihil ad Excludendum .




Mi sembra che un atteggiamento mentale molto diffuso oggi, che riscontro tra amici anche colti o intelligenti,   quando si affrontano i cosiddetti ultimi, cioè le questioni fondamentali – sempre le stesse della nostra vita - chi siamo da dove veniamo e dove andiamo –   sia quello di asserire con certezza, a prescindere da una qualsiasi fede, ma di asserire con certezza soltanto in negativo , cioè escludendo a priori
I fantasmi ? Bah. La vita dopo la morte ? No, non ci siamo.  Le percezioni extrasensoriali, le visioni, la metempsicosi ? Buonanotte !

Eppure io credo invece che, proprio alla luce delle attuali conoscenze della fisica, e di quello di incredibile che stiamo scoprendo, occorrerebbe da parte di noi umani nelle nostre valutazioni di giudizio, una dose infinita di umiltà. E basterebbe dedicare un po’ di tempo alla lettura di uno qualsiasi dei grandi libri di fisica divulgativa disponibili sul mercato, per concludere che l’unica verità che potremmo affermare, sostenibile senza timore di smentita è questa: ” Nihil ad excludendum”. 

 Non possiamo escludere nulla, dovremmo mantenere la mente molto molto aperta, se possibile. Ecco quel che scrive ad esempio Martin Rees, uno dei maggiori astronomi moderni, Research Professor della Royal Society all’Università di Cambridge e Astronomo Reale d’Inghilterra in un libro capitale, Il nostro ambiente cosmico ( edizioni Adelphi, pag.183).

 “Svariati scenari conducono a universi multipli. Andrej Linde, Alex Vilenkin, e altri hanno simulato al calcolatore un’inflazione “eterna”, nella quale più universi emergono da big bang distinti in regioni disgiunte dello spaziotempo. Alan Guth e Lee Smolin hanno immaginato, partendo da ipotesi diverse, che all’interno di un buco nero possa germogliare un nuovo universo che espandendosi formerà un dominio spaziotemporale a sè stante, a noi inaccessibile.
Lisa Randall e Raman Sundrum suppongono invece che possano esistere altri universi separati dal nostro grazie a una dimensione spaziale in più. Questi universi disgiunti potrebbero tanto interagire gravitazionalmente quanto non avere nessun effetto uno sull’altro.
Gli altri universi sarebbero domini spaziotemporali separati; non potremmo neanche dire sensatamente se sono esistiti prima del nostro o esistono insieme o esisteranno dopo, perchè questi concetti hanno senso solo finchè possiamo usare una misura del tempo unica, comune a tutti gli universi.
Alan Guth e Edward Harrison hanno addirittura ipotizzato che si possano fabbricare universi in laboratorio facendo implodere un certa quantità di materia fino a trasformarla in buco nero. Per caso il nostro universo è il risultato di qualche esperimento eseguito in un altro ? Secondo Smolin, l’universo-figlio potrebbe essere governato da leggi che recano l’impronta di quelle che prevalgono nell’universo-genitore; ma in tal caso potremmo resuscitare, sotto nuova veste, l’argomento teologico del progetto, rendendo ancora più incerto il confine tra fenomeni naturali e soprannaturali.”
Alla luce di queste semplici conclusioni alle quali sta giungendo non qualche stregone, ma  la fisica moderna - e cioè che NESSUNA conclusione è attualmente praticabile e nemmeno pensabile per definire una spiegazione logico-razionale del mistero -  come è possibile per noi escludere qualcosa ?  Come è possibile escludere l’esistenza o la realtà di fenomeni che non comprendiamo ? Quale diritto, quale libertà arbitraria può indurci a dire: “le cose stanno così” ?

19/10/11

I diversamente vivi.


Mi piace spesso usare per i nostri morti, la definizione di ‘diversamente vivi’.

Non è un eufemismo e non è un gioco di parole.

Dipende da come ci si pone di fronte al grande mistero della morte. Per molti, specialmente oggi, la morte non è altro che la fine biologica, e quindi la fine – in-sensata – di un’altra cosa in-sensata, che è la vita, frutto del caso.

Per altri, e io sono uno di quelli, la morte non è la fine, ma il fine. Cioè lo scopo della nostra vita.

Ed è molto curioso e interessante che la nostra lingua, la lingua italiana, nasconda nell’etimologia di questa parola, fine, un doppio significato così opposto.

Se si ragiona in termini religiosi, trovare una spiegazione a fenomeni bizzarri di spiriti che scelgono di manifestarsi dall’oltre-morte attraverso persone a loro care, con scritti o manifestazioni di varia natura, è piuttosto semplice.

Fa infatti parte di qualunque tradizione religiosa, la convinzione che esista una vita oltre la morte, e che i morti possano manifestare la loro presenza in diversi modi anche ai vivi.

Ma l’interesse per questo tipo di fenomeni – chi è cristiano e chi crede nella resurrezione, non si meraviglia di certo, non dovrebbe meravigliarsi - trascende le convinzioni puramente religiose. 

C’è infatti da considerare che noi sappiamo attualmente molto poco, quasi niente anzi, di cosa sia la morte, e soprattutto di cosa sia la vita.

Siamo calati in un mistero infinito, che solo ora cominciamo ad esplorare a tentoni, come un bambino che cammina nel buio.

Viviamo in un ambiente cosmico, un universo, che LA SCIENZA – non la religione – ci dice essere ‘vecchio’ di circa 14 miliardi di anni. Questo universo, ci dice LA SCIENZA – non la religione – non è L’UNICO universo, ma uno degli infiniti (?) universi che formano il cosiddetto ‘multiverso’. Questi universi, ci dice LA SCIENZA – non la religione – sono probabilmente collegati tra di loro attraverso quelle ‘smagliature’ chiamate buchi neri. Il tempo e lo spazio, come ci dice LA SCIENZA – non la religione – sono solo un accidente, una convenzione delle dimensioni che formano o fanno da sfondo al multi verso. La materia visibile, come ci dice LA SCIENZA – non la religione – è solo un accidente, appena il 5% di quanto è contenuto nell’universo, o negli universi. E il restante 95% è formato, ci dice LA SCIENZA – non la religione – da ‘materia oscura’ e da ‘energia oscura’, che non sappiamo ancora assolutamente cosa siano. In più, LA SCIENZA – non la religione – ci dice che esiste l’antimateria, e che ad ogni particella di materia, anche la più infinitesimale, corrisponde una particella contraria, invisibile, di carica opposta.

Ora, alla luce di questo, di questo enorme, abbacinante mistero, come si può escludere a priori che le voci e le presenze di coloro che non sono più visibili e presenti in questa vita limitata e ‘reale’, esistano ancora, seppure in una forma per noi in-visibile ?

 A parte la logica, ciascuno di noi, se soltanto fa un po’ di silenzio nella propria chiassosa vita, può sperimentare una ‘forma di dialogo’ con le persone che non ci sono più, che può passare anche attraverso la semplice interpretazione di segni, di segnali che ci sembra di cogliere nel corso delle nostre giornate.

Sono fenomeni di diversa natura, nei confronti dei quali io nutro il più profondo rispetto. Anche e soprattutto perché i ‘diversamente vivi’ spesso sembrano avere molte cose da raccontare, e importanti, a noi che siamo ancora qui; se soltanto noi abbiamo l’accortezza di fare, almeno per un poco, silenzio.

Fabrizio Falconi.

18/10/11

E' morto Andrea Zanzotto. Un grande, immenso poeta.




TREVISO - Il poeta Andrea Zanzotto è morto attorno alle 10 del mattino all'ospedale di Conegliano (Treviso) dove era stato ricoverato lunedì per complicazioni respiratorie. Il 10 ottobre aveva festeggiato il suo novantesimo compleanno. 

GLI ANNI DELLA FORMAZIONE - Andrea Zanzotto era nato il 10 ottobre 1921 a Pieve di Soligo città che amava e dove viveva. Dopo la maturità classica come privatista al liceo Canova di Treviso, si iscrisse all'università di Padova dove ebbe come insegnanti Diego Valeri e Concetto Marchesi. Si laureò nel 1942 con una tesi su Grazia Deledda. Due anni prima aveva ottenuto la prima supplenza nella scuola di Valdobbiadene (Treviso). Alla fine della seconda guerra mondiale partecipò alla Resistenza tra le file del movimento Giustizia e Libertà. 

GLI ESORDI LETTERARI - Negli anni Cinquanta pubblicò le prime poesie e partecipò ai primi concorsi. La prima raccolta datata 1951 è intitolata Dietro il paesaggio. Nel 1959 vinse il Cino Del Duca. Nello stesso anno sposò Marisa Michieli, nel 2009 avevano festeggiato le nozze d'oro. Nel 1962 Mondadori pubblicò il suo volume di versi IX Egloghe. Scrisse numerosi saggi critici su autori a lui contemporanei come Giuseppe Ungaretti, Eugenio Montale e Vittorio Sereni. Nel 1968 uscì il volume in versi La beltà presentato a Roma da Pier Paolo Pasolini mentre il primo giugno uscì sul Corriere della Sera la recensione scritta da Eugenio Montale. Nel 1975 e nel 1976 partecipò ai corsi estivi dell'Università di Urbino tenendo conferenze e seminari sulla letteratura contemporanea. 
I FILM CON FELLINI - Nel 1976 il poeta iniziò a collaborare al film Casanova di Federico Fellini. Nello stesso anno viene pubblicata l'opera Filò che comprende la lettera che Zanzotto scrive al regista. Nel 1980 scrisse alcuni dialoghi e stralci di sceneggiatura del film La città delle donne di Fellini, che incontrò più volte assieme alla moglie Giulietta Masina, che sarebbe divenuta la madrina del premio Comisso di Treviso. Nel 1983 scrisse i cori per il film E la nave va. Nello stesso anno viene pubblicato nella collana Lo Specchio, comprendente quasi tutta la sua opera fino a quel momento, Il Galateo in Bosco . Costituisce il primo volume di una trilogia che riceverà il premio Viareggio nel 1979. 

GLI ULTIMI ANNI - Nell'estate del 1988 si recò a Berlino per un incontro internazionale di poesia e nel 1990 uscì, tradotta in lingua tedesca. Nel 1999 esce il Meridiano Mondadori che raccoglie Le poesie e prose scelte a cura di Stefano Dal Bianco e Gian Mario Villalta. Nel 2005 vede le stampe un nuovo libro dello scrittore dal titolo Colloqui con Nino nel quale Zanzotto, con l'aiuto della moglie Marisa, ha messo insieme un magnifico florilegio che vuol essere esplorazione antropologica, ricerca sentimentale e viaggio nel passato. Nel 2009 esce In questo progresso scorsoio: una conversazione col giornalista del Corriere della Sera Marzio Breda, nella quale Zanzotto esprime l'angoscia delle riflessioni sul tempo presente e il suo lucido pensiero di ottantasettenne. Nello stesso anno, in occasione del suo ottantottesimo compleanno, il poeta pubblica Conglomerati, la nuova raccolta poetica di scritti composti tra 2000 e 2009, edita nella collana Lo Specchio della Mondadori; in questo libro Zanzotto si confronta ancora con una realtà in continuo mutamento culturale e antropologico, secondo la poetica dell'intervista con Breda.

13/10/11

RI-COMINCIARE. Da dove ? (12 cose da cui ripartire): 12. SACRIFICIO.



Per ripartire, dopo la caduta di senso che rischia di travolgere ogni cosa, dovrò ricordarmi di una parola che è stata cancellata dagli anni e dalla frenetica illusione di un eterno presente: sacrificio.


Cosa è che 'fa sacra'  (sàcer fàcere) la mia vita ? Cosa può renderla sacra, e cioè in definitiva degna di essere vissuta ?

Certamente nessuna delle cose mondane, nessuna delle cose che il mondo mi offre in soprannumero, mi offre senza nemmeno chiedermi un volgare contrassegno, nessuna di queste cose può e potrà rendermi migliore, potrà arricchirmi di nulla.

Sin da bambino ho imparato che OGNI crescita è legata ad un sacrificio.

Non c'è nessuna crescita se non si è disposti a perdere qualcosa di sé: senza sacrificio, si resta eterni bambini, si rinuncia alla vita.

E io non voglio rinunciare alla vita. Questa vita delittuosamente appesantita dalla mancanza di un orizzonte futuro. Questa vita stesa a stendere sotto il peso di un eterno presente che ritorna e che non aggiunge e che non toglie.

Cosa potrò mai diventare, se non offrirò me stesso, se non lo lascerò andare via, in dono o a pegno, se non lo farò fruttare per una buona causa umana, se non sarò capace di trasformarmi, di rendermi maturo come fa un frutto quando si stacca dall'albero ?

Qualunque sia il cammino, la mia anima deve compierlo e sa che deve compierlo. Fare il proprio, dare il meglio, e guardare oltre.  Da quanto saprò essere generoso, si misurerà la riconoscenza dell'avere.  E se anche non avrò avuto, non avrò vissuto indegnamente o inutilmente.

C'è uno spirito antico che vive dentro di me.  Una lunga storia di cui io sono simbolo e frammento.  Che io sono, anche se non lo so.

Come scrisse C.G. Jung:

ma lo spirito del profondo disse: 
"Nessuno può o deve impedire il sacrificio. Il sacrificio non è distruzione, il sacrificio è la pietra miliare di ciò che verrà. Non avete forse avuto i conventi ? Non sono forse andati a migliaia nel deserto ? dovete dunque portare i conventi dentro di voi. Il deserto è in voi. il deserto vi chiama e vi attira e, se pure foste legati col ferro al mondo di questo tempo, il richiamo del deserto spezzerà ogni catena. in verità, io vi preparo alla solitudine." quindi il mio lato umano tacque. ma al mio lato spirituale accadde qualcosa che devo chiamare grazia.


(foto di Henri Cartier-Bresson)







12/10/11

La porta del silenzio.



Il coro dell'opinione comune sostiene oggi, di non sentire Dio, di vedere e percepire - specie qui in Occidente - solo realtà e materia (e soldi, beni, consumi...). Eppure, di fronte a questa evidenza, ciascuno dovrebbe interrogarsi su cosa sono diventate le nostre vite. 


Nei luoghi di lavoro, nelle famiglie, negli stadi, negli aeroporti, anche nelle chiese. Dappertutto vige una stessa caratteristica: l'assenza del silenzio. 

Eppure la radice stessa etimologica della parola mistico (come del resto quello della parola mistero) proviene dal verbo greco muein, ovvero: tacersi.

Se uno non si tace, non avrà alcuna possibilità di ascoltare Dio.

Se uno pretende di trovare Dio, o un senso mistico dell'esistenza in mezzo al caos, al rumore, al fraintendimento, al vociare, al pulsare di mille sollecitazioni, non avrà alcuna possibilità di riuscirvi.

Il silenzio è merce rara. Anzi, introvabile. Ormai, anche navigando su di un battello in mezzo al mare, si sentirà musica orrenda sparata dagli altoparlanti a bordo, che impedirà di ascoltare perfino il rumore del mare.

Come è possibile, nel rumore assordante, ascoltare se stessi, che è appunto l'unico modo di ascoltare Dio ?

Raimon Panikkar scrive:

Nel processo a Gesù egli risponde alla domanda del potere ("che cos'è la verità?") tacendo: se non capiamo quel silenzio come la risposta a Ponzio Pilato, non abbiamo capito Gesù e non abbiamo capito il linguaggio umano. 
Perchè ogni linguaggio è vero in quanto rivela quella sorgente di silenzio da cui la verità sgorga. Cristo ha detto: "Io sono la verità"; ma non ha detto: "La verità è quello che voi dite di me". Egli è la via, la verità, la vita, ma solo se si cammina per la via, se si sta nella verità, e se si vive, altrimenti stiamo vivendo la vita di altri. 
Una profondità "mistica" è ciò che ci manca oggi: la mistica di Abramo che, pur non sapendo dove stava andando, sapeva però che proprio là stava la voce di Dio. 

Fabrizio Falconi.

fonte Mysterium

11/10/11

Elogio di Mina - Un segno dei tempi passati e di quelli presenti.



Questo è un elogio di Mina.

Mina, nome d'arte di Mina Anna Mazzini, nata a Busto Arsizio il 25 marzo 1940, la più grande cantante italiana. 

C'è un motivo che ci spinge ad elogiarla.  La sua presenza - nonostante l'assenza pubblica che data 1978, anno di abbandono della scena - più viva che mai (blog e social network crepitano di sue esibizioni in b/n, inserite da fans e adoratori di tutto il mondo) spinge a farsi qualche domanda e a darsi qualche risposta.

Mina è il contrario di quello che passa oggi il convento.

Televisivamente, ma non solo. Direi proprio, antropologicamente. 


Chi è Mina ? Cosa sappiamo di lei quando vediamo i suoi video, le sue apparizioni nell'arco di quel ventennio - 1958-1978 - magico per il nostro paese (un periodo nel quale l'Italia produsse frutti culturali abbondantissimi, nel cinema, nella musica, nella letteratura, uniti ad una rinascita complessiva del paese che andò sotto il nome di boom) ?

Mina era innanzitutto una artista di capacità quasi sovrumana. Se si guardano questi video, e ad ogni passaggio in televisione, Mina appare di una bravura travolgente. Il suono della sua voce è pura melodia ma è anche tante altre cose insieme: virtuosismo, mai stucchevole e mai fine a se stesso, aggressività, grinta, interpretazione, magia, sospensione, incantamento.  Il suo talento indiscusso è purissimo: la voce sgorga con naturalezza incredibile, eppure appare chiaro che il semplice talento innato è stato affinato duramente, con l'esercizio, lo studio, una dedizione assoluta (che del resto risulta evidente dalla sua biografia).

Ma Mina non è solo questo.

Mina è una donna bella, anche se non bellissima. Mina è una donna di classe che entra nelle case di tutti, con discrezione e magnetismo.  Con intelligenza.  Non è mai trasgressiva - non ne ha bisogno - e non è mai fuori tono, fuori registro.  Si impone semplicemente con l'evidenza della sua bravura e con l'intelligenza delle misurate parole e degli sguardi, oltre che dell'ironia con la quale interpreta volentieri il ruolo della femme fatale che affascina ogni italiano.

La sua bravura inarrivabile per chiunque, è esibita con un pizzico di civetteria, ma senza nessuna prosopopea, e nessuna aria di superiorità.  Mina è anzi un cavallo di razza che accetta il confronto con il diverso e anche con l'opposto.

Mina è gioiosa, è felice di cantare, è felice di dare felicità.  Le sue canzoni, le canzoni che non sono sue ma che diventano sue, perché la sua personalità è così straripante, si trasformano istantaneamente per molti anni nel conforto, nel mantra, nell'accompagnamento sonoro della vita (la vita vera) di migliaia di persone.

Attenzione, ora: tutte le doti che abbiamo enumerato in questo elogio sembrano oggi dimenticate o cancellate o scomparse, se soltanto si realizza un confronto con ciò che pubblicamente passa il convento anche in termini nazional-popolari come è ed è sempre stata la canzone leggera.

Talento, bravura, esercizio, studio, dedizione assoluta, bellezza, classe, discrezione, magnetismo, intelligenza, ironia, misura, personalità.    Che fine hanno fatto, in questo Paese ?

Cosa è successo a questo Paese perché si sia passati in poco, poco tempo, da questo modello, il modello di Mina al niente divenuto paradigma dei 15 minuti di celebrità assegnato per statuto agli imbelli che si agitano inutilmente su quella che assomiglia sempre di più alla tolda di un Titanic ?

Fabrizio Falconi

10/10/11

Le anime si riconoscono.



Da sempre - da quando ci ho ragionato su - sono convinto che le anime si riconoscano.
Quando due persone si incontrano, mettono insieme una serie di 'riconoscibilità', non una sola - quella che di solito noi pensiamo sia l'unica: cioè quella del soma, del corpo.
I corpi si parlano con il linguaggio del corpo: sappiamo subito dire se una persona è 'simpatica', o 'antipatica', se è 'affascinante' o 'respingente', se i suoi occhi sono 'profondi', e la sua bocca 'sensuale'. Tutto ciò attraverso una serie di 'segnali' che i nostri occhi, le nostre orecchie, il nostro olfatto, decodificano subito.
Allo stesso modo, le nostre anime ( per anima intendo proprio, seguendo Plotino, la terza 'ipostasi', che è insieme immortale, intellettiva e divina) si riconoscono da subito.
Ad ogni incontro la nostra anima sente (non allo stesso modo dei sensi, ovviamente), l'anima di chi ci è di fronte: ne riconosce il profilo, la consistenza, le qualità.
Se incontriamo un'anima sofferente, i nostri occhi e i nostri sensi possono anche scansarla e tirare subito dritto, ma la nostra anima l'ha riconosciuta, e questo incontro la nostra anima se lo porta dietro.
Gran parte della sofferenza di oggi negli uomini, ne sono convinto, deriva da questa incapacità di ascoltare la propria anima. Che vive tenuta al guinzaglio dentro ognuno di noi dal ferreo controllo del corpo e soprattutto della psiche.
La nostra psiche è come un ingenuo (e spaventato) guardiano che pensa che tenendo tutto sotto controllo (e ben stretto il guinzaglio) ogni sofferenza, ogni emozione troppo forte verrà resa innocua.        Invece, quel che ottiene psiche è esattamente l'opposto: l'anima tenuta al guinzaglio si ribella.     Manifesta la sua protesta attraverso quelle cose che noi chiamiamo con nomi che all'anima devono apparire  ridicoli: ansia,     depressione,    crisi,      vuoto,    malattia.
L'anima vuole essere libera. Vuole conoscere TUTTO, vuole assaporare la vita, vuole essere vera, perchè viva.  E viva, perché vera.
Vuole parlare.
E se noi non la facciamo parlare (al nostro corpo, alla nostra psiche), la nostra anima si limiterà a scambiare cenni di assenso, di riconoscimento alle altre anime prigioniere che incontra, come due navi che si incrociano nel cuore della notte, e che non possono fare altro che illuminarsi debolmente per qualche fuggevole minuto.
Fabrizio Falconi
in testa: 'Telone' di Justin Bradshaw,  acquarello, acrilico su zinco, 20X15 cm.

07/10/11

Il Premio Nobel per la Letteratura a Tomas Transtromer.


E' Tomas Tranströmer, artista dei silenzi e della natura il premio Nobel per la Letteratura 2011: psicologo, pianista e traduttore svedese, minato nel fisico da un ictus che lo colpì nel '90.

Nel motivare l'assegnazione del Nobel a un letterato svedese (è la sesta volta che accade, l'ultima nel '74 a Johnson e Martinson) e a un poeta (non accadeva dal '96 con la polacca Wislawa Szymborska) l'Accademia reale ha spiegato che Tranströmer "attraverso immagini dense e limpide, ci ha offerto un nuovo accesso alla realtà".

Infatti, gran parte delle liriche sono "caratterizzate da economia di linguaggio, concretezza e metafore struggenti. Nelle sue ultime raccolte si è spostato verso uno stile ancora più essenziale e un più elevato grado di concentrazione".


Tempesta 

Passando, s’incontra all’improvviso
qui la vecchia
quercia gigantesca, alce pietrificato
dalla chioma sconfinata sulla fortezza
nero–verde del mare di settembre.
Temporale del nord. E’ il tempo
 in cui maturano grappoli di nespole.
Vegliando al buio si sentono
scalpitare le costellazioni al loro posto
in alto sopra l’albero.

06/10/11

Steve Jobs morto: una riflessione.



La morte di Steve Jobs, geniale creatore dei sistemi Apple, morto prematuramente a 56 anni, sta avendo una eco mondiale fortissima.

E' il giusto riconoscimento ad un grande imprenditore che ha saputo rivoluzionare le abitudini di consumo e di fruizione (di musica, telefonia, informazione, cultura) planetaria, o quanto meno della porzione più evoluta e più ricca del pianeta.

Ciò che però si conferma in queste ore - ma se ne era avuta evidente riprova nei Riots londinesi, per esempio -  è che il culto di Jobs e di Apple nel mondo è diventato una specie di religione pagana.

I seguaci della tecnologia Apple, e della filosofia industriale di Jobs si sentono, a torto o a ragione, facenti parte di una 'scuola' che adora i suoi totem tecnologici, davvero magici, sotto ogni aspetto. Fino a pochi anni o mesi fa tutto ciò che oggi mette a disposizione un semplice apparecchio, leggerissimo ultrapiatto, dal design semplice ed essenziale, era puramente im-pensabile. 


E' la dimostrazione di come la τέχνη,  la tecné, o meglio ancora la  tékhne-loghìa,  la tecnologia goda la più alta considerazione tra le applicazioni umane.

E abbia sopravanzato, in fatto di considerazione o reputazione, anche e di gran lunga il pensiero filosofico (per non parlare di quello teo-logico)

Jobs, però, non era un semplice homo technologicus.  Era anzi, profondamente convinto che alla base di ogni lavoro, e quindi anche del lavoro tecnologico, vi dovessero essere dei riferimenti e solide basi etiche (anche se io non so francamente quanto questi principi fossero sempre coerenti con le politiche aziendali) come si evince dal celebre discorso-lezione ai laureati di Stanford, che ha lasciato segni così profondi nella contemporaneità.

"La morte è con tutta probabilità la più grande invenzione della vita. Il vostro tempo è limitato per cui non lo sprecate vivendo la vita di qualcun altro,"  disse quel giorno Jobs. E già l'aver messo al centro della sua lezione la morte fu un atto di grande coraggio e immensa umanità.

Forse, proprio a partire da quella lezione, dovremmo tutti comprendere - proprio oggi che uno dei più grandi talenti creativi ci lascia - che la tecnologia non è mai - e non dovrebbe mai essere - il fine delle nostre vite.  

La tecnologia è strumento. E dietro ogni strumento c'è, o ci dovrebbe essere un pensiero umano.

Ricordiamocelo.

Ricordiamoci di tributare gli stessi onori che stiamo tributando giustamente a Steve Jobs, anche a quegli altri grandi uomini, come Raimon Panikkar, scomparso recentemente, che ci hanno lasciato una eredità di pensiero e di umanità altrettanto grande e importante, seppure non legata ad alcuna innovazione puramente tecnologica.

Fabrizio Falconi.

04/10/11

Corrado Guerzoni - "Il valore della parola" - Un ricordo.


A proposito di Corrado Guerzoni, scomparso l'altro ieri, a Roma, vorrei riportare qui un ricordo personale che risale al 1987.

Guerzoni era allora direttore di Radiodue, la seconda rete radiofonica della Radiorai - allora seguitissima - (incarico che ricoprì per 12 anni consecutivi) e conduttore in primis di quella fortunata trasmissione che si chiamava "Radiodue 3131".

"Radiodue 3131" era l'erede di quella trasmissione, "Chiamate Roma 3131", condotta all'inizio da Gianni Boncompagni e Franco Moccagatta (prima trasmissione il 7 gennaio 1969) che rivoluzionò completamente il mezzo radiofonico, con l'introduzione delle telefonate degli ascoltatori  (tutta l'epopea del 3131 dal 1969 al 1995, che ha attraversato l'arco di trent'anni cruciali nella storia italiana, è ricostruita in un prezioso volume scritto da Raffaele Vincenti, La prima volta del telefono, edito dalla RaiEri, con dvd, nel 2009).

Guerzoni - con la determinante partecipazione di Lidia Motta, geniale capostruttura della Rai di allora, e suo "braccio destro" - prese in mano la trasmissione nel 1982, cambiandone completamente l'identità.   Da trasmissione 'confidenziale', dal tono tutto sommato 'leggero',  3131, sotto la guida di Guerzoni si trasformò in un vero strumento di ricerca giornalistica.  Ogni argomento veniva affrontato da diversi punti di vista, con l'ausilio di tecnologie allora del tutto sperimentali - lo studio mobile, le radio-macchine, i collegamenti dagli angoli più remoti d'Italia - e con la ricerca di un dialogo con gli ascoltatori basato sul "valore della parola", come strumento creativo, di crescita personale (non di chiacchiera), di conoscenza e consapevolezza, in una parola di responsabilità.

Guerzoni era un giornalista.  Che veniva da una esperienza drammatica: quella di aver esercitato per diversi anni il ruolo di portavoce dell'on. Aldo Moro.  Dopo la sua barbara esecuzione da parte delle BR, Guerzoni lasciò la politica. Tornò al giornalismo e decise di farlo in un modo tutto suo: non gli interessavano tanto le notizie - gli interessavano anzi assai poco - quanto il nostro modo di osservare il mondo e di farne parte.  Era convinto che la parola fosse immedesimazione nell'altro, condivisione, possibilità e capacità delle anime di farsi dia-logo, di partecipare ad una comunità allargata, che si interroga e interroga le proprie ansie e le proprie questioni cruciali.

Guerzoni era un accanito lettore: pur essendo come egli si definiva "incompetente" teoricamente, amava leggere di tutto, poesia e prosa, filosofia e teologia, i classici.

Così, nell'estate del 1987, Guerzoni, insieme a Maurizio Ciampa - filosofo e conduttore del 3131 notte (altro luogo deputato alla sperimentazione comunicativa)  - pensò di provare a scrivere un testo, insieme a colleghi molto più giovani di lui.

Fummo "convocati" in 5: oltre a Ciampa, Francesco Malgaroli, Gabriella Mangia, Stefano Rizzelli ed io.

L'idea era quella di un "work in progress": non avevamo un canovaccio pre-stabilito. Non più di tanto. Guerzoni pensò di realizzare una serie di incontri nel suo ufficio di Viale Mazzini. Incontri nei quali noi lo avremmo sollecitato su questi temi - cosa vuol dire parlare con qualcuno, esiste una coscienza o una verità delle parole, come si può guardare nel cuore del prossimo, che cosa comporta che il mondo ormai sia un enorme luogo dove tutti parlano e quasi nessuno ascolta - e lui avrebbe risposto "a ruota libera"; come una specie di confessione, interrogandosi - lui per primo - sul senso del lavoro che faceva tutte le mattine, quando si accendevano i microfoni nella R7 di Via Asiago.

Ho un ricordo personale fortissimo di quegli incontri. Noi eravamo molto giovani, freschi di studi, e con la presunzione di sapere molte più cose di quelle che in effetti conoscevamo.  Guerzoni però si fidava ciecamente di noi.  Voleva darci questa chance di fare il libro insieme a lui, di vederlo crescere insieme.  Di firmarlo perfino insieme a lui.

Realizzammo parecchi incontri - non ricordo se sei, sette - e furono ore meravigliose.  Il Guerzoni che ricordo durante quegli incontri era per me piuttosto stupefacente. Pur parlando "a braccio" non fu mai, nemmeno una volta, banale.  Le sue riflessioni erano meditate e pacate, ma dimostravano i frutti di una ricerca personale colta e approfondita, sollevavano questioni primarie, per noi che iniziavamo a fare quel lavoro di 'interrogazione della realtà' che è e dovrebbe sempre essere il giornalismo.   Ci offriva, ci offrì la sua visione di quel mondo, che doveva essere prima di tutto 'morale', cioè rispondere ad un senso di responsabilità profonda: quello della in-violabilità del mistero dell'altro, che è sempre di fronte a noi, e che anche quando sceglie di aprire se stesso, la sua anima, i suoi pensieri, resta altro.

Confidava però molto nella capacità della parola di "cambiare gli uomini", e in definitiva di cambiare anzi il mondo. Era questa la speranza - o la fede, o tutte e due le cose insieme - che agitava il suo lavoro e la sua ricerca personale, sempre inquieta, alle prese con la apparente e angosciosa "irremediabilità" del mondo.

Il libro uscì l'anno seguente, pubblicato dalla SEI di Torino, intitolato "Il valore della Parola".

Aveva faticato molto a congedarsi dal libro, concedendo il "visto si stampi".  Nelle conclusioni finali, rendendosi conto che c'era già qualcosa che premeva urgentemente "oltre" il libro,  scriveva: Del resto è la vita che butta per aria i libri, è l'esperienza che facciamo ogni giorno e ogni sera che scompiglia le nostre idee, che soffia nei nostri sentimenti, nelle nostre azioni, nelle nostre reazioni, che ci espone al rischio insito nel vivere stesso."

Vivere, rischiare, esporsi, assumersi "la grave responsabilità" del parlare con la gente, con milioni di persone ogni giorno. L'intera esperienza di vita di Guerzoni - e l'eredità grande che ci ha lasciato a noi che abbiamo avuto la notevole fortuna di lavorare con lui - si è giocata tutta tra questi due apparenti estremi: vita e parola. 

Fabrizio Falconi



02/10/11

E' morto Corrado Guerzoni. Un maestro.



E' scomparso stanotte Corrado Guerzoni, storico direttore di Radiodue e conduttore di una delle più popolari trasmissioni della Radio (Radiodue 3131).

A quello che considero un vero maestro (un Direttore vero, sperimentatore, giornalista, valorizzatore di giovani, persona profondamente umana), dedico questo ricordo, sicuro di condividerlo con molti che gli sono oggi, in un modo o nell'altro, debitori.


La poesia della Domenica - Confessione di un teppista di Sergej A. Esenin .



 Confessione di un teppista

Non a tutti è dato cantare,
E non tutti possono cadere come una mela
Sui piedi degli altri.

Questa è la più grande confessione,
Che mai teppista possa rivelarvi.

Io porto a bella posta la testa spettinata,
Lume a petrolio sopra le mie spalle.
Mi piace illuminare nelle tenebre
L’autunno spoglio delle vostre anime.
E mi piace quando una sassaiola di insulti
Mi vola contro, come grandine di rutilante bufera,
Solo allora stringo più forte tra le mani
La bolla tremula dei miei capelli.

È così dolce allora ricordare
Lo stagno erboso e il suono rauco dell’ontano,
Che da qualche parte vivono per me padre e madre,
Che se ne fregano di tutti i miei versi,
E che a loro sono caro come il campo e la carne,
Come la pioggia fina che rende morbido il grano verde
                                                                           [a primavera.
Con le loro forche verrebbero a infilzarvi
Per ogni vostro grido scagliato contro di me.

Miei poveri, poveri contadini!
Voi, di sicuro, siete diventati brutti,
E temete ancora Dio e le viscere delle paludi.
O, almeno se poteste comprendere,
Che vostro figlio in Russia
È il più grande tra i poeti!
Non vi si raggelava il cuore per lui,
Quando le gambe nude
Immergeva nelle pozzanghere autunnali?
Ora egli porta il cilindro
E calza scarpe di vernice.

Ma vive in lui ancora la bramosia
Del monello di campagna.
Ad ogni mucca sull’insegna di macelleria
Da lontano fa un inchino.
E incontrando i cocchieri in piazza,
ricorda l’odore del letame dei campi nativi,
Ed è pronto a reggere la coda d’ogni cavallo,
come fosse uno strascico nuziale.

Amo la patria!
Amo molto la patria!
Anche con la sua tristezza di salice rugginoso.
Adoro i grugni infangati dei maiali
E nel silenzio della notte, la voce limpida dei rospi.
Sono teneramente malato di ricordi infantili,
Sogno delle sere d’aprile la nebbia e l’umido.
Come per scaldarsi alle fiamme del tramonto
S’è accoccolato il nostro acero.
Ah, salendo sui suoi rami quante uova,
Dai nidi ho rubato alle cornacchie!
È lo stesso d’un tempo, con la verde cima?
È sempre forte la sua corteccia come prima?

E tu, mio amato,
Mio fedele cane pezzato?!
La vecchiaia ti ha reso rauco e cieco
Vai per il cortile trascinando la coda penzolante,
E non senti più a fiuto dove sono portone e stalla.
O come mi è cara quella birichinata,
Quando si rubava una crosta di pane alla mamma,
e a turno la mordevamo senza disgusto alcuno.


Io sono sempre lo stesso.
Con lo stesso cuore.
Simili a fiordalisi nella segale fioriscono gli occhi nel viso.
Srotolando stuoie d’oro di versi,
Vorrei dirvi qualcosa di tenero.

Buona notte!
A voi tutti buona notte!
Più non tintinna nell’erba la falce dell’aurora…
Oggi avrei una gran voglia di pisciare
Dalla mia finestra sulla luna.

Una luce blu, una luce così blu!
In così tanto blu anche morire non dispiace.
Non m’importa, se ho l’aria d’un cinico
Che si è appeso una lanterna al sedere!
Mio buon vecchio e sfinito Pegaso,
M’occorre davvero il tuo trotto morbido?
Io sono venuto come un maestro severo,
A cantare e celebrare i topi.
Come un agosto, la mia testa,
Versa vino di capelli in tempesta.

Voglio essere una vela gialla
Verso il paese per cui navighiamo.

Sergei A. Esenin, 1920

A mio parere la versione di Angelo Branduardi di questa celebre poesia di Esenin, è un capolavoro. La ripropongo qui sotto in un'altra versione dal vivo, del 1972, accompagnata dalle immagini tratte dal colossal "Esenin" girato nel 2005 per la TV russa.