27/09/11

La menzogna di una storia - Le recensioni di Wim Wenders critico. di F. Falconi


Chissà cosa direbbe oggi Wim Wenders a proposito di una frase che Hitchcock usava spesso per spiegare il suo modo di intendere il cinema. "L'essenziale è commuovere il pubblico", diceva il grande Hitch "e l'emozione nasce dal modo in cui si costruisce una storia, dal modo in cui si giustappongono le sequenze."

Oggi che il regista di Dusseldorf sta per doppiare il traguardo dei quarantacinque anni e molti dei suoi bellicosi giudizi giovanili sul "cinema dei maestri" sono stati rivisti, rimeditati, in qualche modo adattati ad una crescita artistica che ha portato Wenders stesso, appunto, nell'olimpo dei grandi.

Non che Hitchcock fosse stato un bersaglio privilegiato dei lapidari libelli che il ventiquattrenne Wenders pubblicava su Filmkritik, la più prestigiosa rivista  cinematografica tedesca, equivalente dei francesi Cahiers, ma certo il Wenders di allora avrebbe avuto qualcosa da ridire a proposito di quel riferimento "all'emozione che nasce dalla storia", a cui si richiama esplicitamente Hitchcock. E' noto infatti come l'atteggiamento peculiare  dell'intera generazione del Filmverlag der Autoren, la società autonoma di distribuzione e produzione dalla quale prese le mosse tutto il nuovo cinema tedesco, fosse ostile al concetto tradizionale di "storia" e proponesse invece nuovi modelli basati sull'abbattimento dell'intreccio narrativo.

A fornire nuovi lumi sull'attività critica di Wenders e sui temi fondamentali del suo cinema, ecco un volume (W.Wenders, "Stanotte vorrei parlare con l'angelo", Scritti, 1968/1988 a cura di Giovanni Spagnoletti e Michael Totemberg, Ubulibri) pubblicato con successo in Germania e Francia.

L'autore de Lo stato delle cose entrò a far parte della redazione di Filmkritik nel 1969, quando il mondo aveva conti urgenti da sbrigare e il cinema, quello che aveva cose da dire, era tutto "stelle e strisce". Ovvio dunque che nel libro, nella raccolta delle personalissime recensioni del futuro cineasta ci siano molti passaggi obbligati dell'epoca: l'esaltazione dell'underground, anche se Wenders si dimostra già abile nel saper discernere lo sperimentalismo dall'accademia; la fascinazione dell'on the road, esplicitata nella recensione di Easy Rider e nel plauso al suo eroe, Dennis Hopper che qualche anno dopo ritroverà Wenders ne L'amico americano; la stroncatura d'obbligo per lo spaghetti-western di Leone, accusato di vetero-realismo sacrilego, nei confronti del meraviglioso circo di cartapesta di John Ford e Howard Hawks.

Ma non mancano le sorprese in questa antologia del Wenders critico, esperienza peraltro brevissima, durata solo due anni, prima che nel '70 il giovane Wim passasse dietro la macchina da presa.

Sorprese che derivano soprattutto dal "modulo" della recensione che scavalcando i canoni classici, è qui tutta giocata sui toni e sulle pure emozioni, con infiltrazioni continue di rock'n roll e di citazioni poetiche studiate ad arte per spezzare anche, se possibile, la "storia" di una recensione.


Ma considerazioni inattese e sorprendenti arrivano specialmente nella seconda parte del libro, dove sono raccolti scritti eterogenei di Wenders, pescati un po' ovunque. Così si ha modo di scoprire l'entusiasmo del cineasta per i suoi colleghi Truffaut (Il ragazzo selvaggio), Altman (Nashville), fino ai maestri indiscussi Langa e Bergman che alla fine trovano pagine di vero tributo, di sincero riconoscimento. Rimane semmai nell'ombra, volutamente non illuminato, il rapporto con Fassbinder, grande amico-anniversario.

Nei capitoli conclusivi del libro il Wenders cineasta ricostruisce in lunghi scritti il suo metodo di lavoro basato su un originale e sofferto work in progress.  Illuminante in tal senso è la descrizione minuziosa della vicenda creativa de Il cielo sopra Berlino, un film nato da un'intuizione, niente di più che un'emozione, quella di rivedere la scena di un precedente film, Paris Texas, dove Nastassja Kinski ritrova il figlio e lo abbraccia nella camera d'albergo.  "Questo momento ha avuto su di me un effetto liberatorio," scrive Wenders, "era un'emozione di cui avrei sentito le conseguenze nel film successivo."

E così si procede: con l'accumulo di piccole sensazioni, con il "confronto sul niente" con Peter Handke, l'enfant terrible della letteratura tedesca, che manda al regista i suoi dialoghi scritti di getto, scollegati volutamente da una storia, frutto di rapide intuizioni.

Fino a che il film lentamente prende forma, si concretizza in uno svolgimento che assomiglia innegabilmente a una "storia".  L'abdicazione ad uno sviluppo narrativo diviene inevitabile.

"Ritengo che le storie producano soltanto menzogne" scrive Wenders in un passo del libro, " e la menzogna più grande è che ci sia un contesto. Ma d'altra parte noi tutti abbiamo bisogno di queste menzogne e non ha nemmeno senso costruire una successione di immagini senza una menzogna, senza la menzogna di una storia."

Fabrizio Falconi, La menzogna di una storia - le recensioni di Wim Wenders critico, Paese Sera, 6 settembre 1989. 


1 commento:

  1. ... molto interessante questo inaspettato risvolto di Wenders ! non sapevo dei suoi trascorsi di critico cinematografico; e poi che bella la genesi del Cielo Sopra Berlino; splendidamente ha saputo scrivere pagine di cinema emotivamente inalterabili ... l'angelo che soffia nell'orecchio, il super8 di Paris Texas, l'atmosfera di Lisbon Story, l'angelo Cassiel che non resiste a salvare la bimba che cade e si fa uomo in Faraway So Close ....

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