26/05/09

La Teologia di Dostoevskij - Un articolo di Giovanni Reale.


Cari amici, se avete letto e amato nella vostra vita capolavori assoluti come "L'idiota" o "I fratelli Karamazov", pietre miliari della letteratura - ma anche della filosofia e della spiritualità - credo di farvi un regalo postandovi questo articolo qui sotto pubblicato qualche giorno fa nelle pagine culturali del Corriere della Sera, e firmato da Giovanni Reale. Credo che sia un articolo bellissimo e che dà ragione di tutta la grandezza dell'anima di Fedor Dostoevskij, e della immane eredità che egli ci ha lasciato.

La Bompiani pubblica nella collana «Il pensiero occidentale» tutto Dostoevskij. Sono già usciti il Diario di uno scrittore, I fratelli Karamazov e in questi giorni escono I demoni e L’idiota. Viene ripresa la grande edizione curata da Ettore Lo Gatto, ma rinnovata. I romanzi hanno il testo russo a fronte (una prima a livello mondiale), e le nuove introduzioni sono curate da Armando Torno, un grande conoscitore del mondo russo.

Ma come mai si ripubblica Dostoevskij in una collana di filosofia e non di narrativa? La risposta è semplice: in Italia, Dostoevskij viene considerato dai più un grande romanziere, mentre in Russia lo si considera un grande filosofo. Berdiaev, per esempio, dice: «Dostoevskij fu vero filosofo , fu il più grande filosofo russo». In effetti, i suoi romanzi sono storie di Idee, personificate nei vari personaggi.

Idee vive sia nella loro profondità, sia nel loro complesso movimento dinamico-relazionale e nella loro forza. Dostoevskij stesso precisa che le Idee sono quella forza che muove il mondo e scrive: «Nella storia ciò che trionfa non sono le masse di milioni di uomini né le forze materiali, che sembrano così forti e irresistibili, né il denaro né la spada né la potenza, ma il pensiero, quasi impercettibile all’inizio, di un uomo che spesso sembra privo di importanza».

Dostoevskij fa con i suoi romanzi ciò che Platone ha fatto con i suoi dialoghi. Il filosofo ateniese ha trasposto sul piano dialettico le due grandi forme dell’arte dei suoi tempi, la tragedia e la commedia (per esempio, il Protagora è una grande e straordinaria commedia, il Gorgia e il Fedone sono due grandi tragedie).

Già Nietzsche sosteneva la tesi che «Platone ha dato ai posteri il paradigma di una forma artistica, il modello del romanzo», che sarebbe in sostanza «una favola esopica infinitamente sviluppata». E Dostoevskij ha scelto una forma tipica dell’arte dei suoi tempi, quella del romanzo, per comunicare grandi messaggi filosofici. I suoi personaggi sono incarnazioni di Idee in forma di vere e proprie «icone».

In Italia Luigi Pareyson ha ben sviluppato l’interpretazione di Dostoevskij come vero grande filosofo che si colloca al di sopra della mera analisi dell’animo umano a livello psicologico, e lo considera «uno dei culmini della filosofia contemporanea e un immancabile punto di riferimento nel dibattito speculativo del mondo d’oggi».

Fra le molte idee che Dostoevskij porta in primo piano nei suoi romanzi, ne ricordiamo quattro: il nichilismo, il male, la libertà e la fede.

1. Per quanto riguarda il nichilismo Pareyson afferma addirittura che il personaggio Ivan dei Fratelli Karamazov esprime l’anima nichilistica in maniera perfetta, perfino meglio di Nietzsche.

2. Il male non è in principio una realtà sostanziale (in senso manicheo). Ma non è neppure solo una «privazione del bene», ossia la scelta di un bene inferiore in luogo di un bene superiore (come voleva Agostino). Il male nasce nell’animo dell’uomo: è una volizione negativa, che, proprio respingendo il bene superiore, si impone come una forza distruttiva che produce il male nella sua reale dimensione.

3. Secondo Dostoevskij la libertà consiste nel riconoscimento e nella volizione del Principio supremo dell’Essere e del Bene, oppure nel rifiuto di esso, con tutto ciò che ne consegue. E quindi è una forza che si distingue dal bene e dal male, i quali si realizzano, in quanto tali, proprio in conseguenza della libertà. Dostoevskij è giunto alla fede passando attraverso il nichilismo, e indagando la autodistruzione di esso.

4. La fede presuppone il dubbio, ed è vera fede solamente se è un continuo e dinamico superamento del dubbio stesso. In risposta ai critici che gli rimproveravano la sua fede in Cristo, diceva: «In fatto di dubbio nessuno mi vince. Non è come un fanciullo che io professo Cristo. Il mio osanna è passato attraverso un crogiolo di dubbi». E in una lettera del 1854 esprimeva la forza veramente dirompente della sua fede: «Arrivo a dire che se qualcuno mi dimostrasse che Cristo è fuori dalla verità e se fosse effettivamente vero che la verità non è in Cristo, ebbene io preferirei restare con Cristo piuttosto che con la verità».

Giovanni Reale








tratto da Corriere della Sera del 14 Maggio 2009 - http://www.corriere.it/




25/05/09

La Questione Morale - ora, finalmente, se ne accorge anche la CEI.


Sembra che proprio la Questione Morale sarà al centro della prolusione con la quale tra pochi minuti il Cardinale Angelo Bagnasco aprirà a Roma i lavori dell'Assemblea Generale della CEI.


E io, certe volte, rimango basito dalla lentezza e dalla 'ingenuità' con la quale le gerarchie ecclesiastiche - che non giudico, ma dalle quali vorrei aspettarmi sempre di più di quel che vedo - prendono coscienza dei processi sociali e politici, ma prima ancora antropologici, che interessano il nostro paese.


Insomma, quanti anni sono, ormai che in Italia assistiamo ad un progressivo scivolamento di ogni deriva morale, nei piccoli comportamenti sociali, nella definizione di ciò che è bene comune, di ciò che non aiuta, non serve, di ciò che corrompe le anime dei giovani, degli atteggiamenti messi in campo dai potenti di turno, o dagli 'acclamati', dalla televisione in primis, che portano prima di tutto ad una infelicità diffusa, e poi ad un allontanamento da un qualsiasi elementare senso di carità cristiana ?


Eppure, a leggere queste dichiarazioni di mons. Arrigo Miglio, vescovo di Ivrea e presidente della Commissione CEI per i problemi sociali e il lavoro, viene quasi da sorridere: "Nella societa' italiana," dice Miglio " c'e' una 'questione morale', e la politica e' condizionata dalle difficolta' della societa"'. Parlando a margine della presentazione della Fondazione per il Bene Comune delle Acli, mons. Miglio ha affermato che la "questione morale" "riguarda la societa' e va affrontata senza puntare il dito. Ciascuno - ha aggiunto - deve cominciare dalla propria coscienza".

Il vescovo ha sottolineato che l'Assemblea generale dei vescovi italiani, che comincia oggi, affrontera' non a caso la questione dell'educazione, che e' "uno dei servizi che la Chiesa offre alla societa', per farla crescere sui dei valori che permettono a tutti, anche alla politica, di lavorare per il bene comune".


Ecco, sì è sacrosanto che si cominci ciascuno da sè, dalla proprio coscienza, e no, non pretendiamo che la Chiesa 'punti il dito', no, no, per carità - anche se noi ricordiamo anche un cristianesimo che quando c'è stato da urlare, ha urlato eccome, contro i comportamenti e le distorsioni plateali, gli scandali, che uccidono il senso del bene comune - ma già sentire un così eminente rappresentante della Chiesa che si accorge che in Italia sì, è vero, esiste una questione morale, è già qualcosa. Basta soltanto che l'ultimo appello di una Chiesa poco coraggiosa, non arrivi quando questo paese sarà già completamente distrutto nelle sue fondamenta etiche: in effetti, a ben guardare manca poco.
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21/05/09

La Compassione - Il primo valore cristiano.


Sto leggendo un bellissimo saggio di un tedesco, Henning Ritter, dal titolo sottilmente inquietante: ' Sventura Lontana'.

Ritter è uno dei più importanti filosofi tedeschi, oggi.

Si tratta di una serie di riflessioni sulla compassione.

Un tema che apparirebbe oggi, a prima vista, quasi desueto. Eppure di una stringente attualità, specie per noi cristiani.

Compassione, è bene dirlo subito, non vuol dire 'pena' come oggi va di moda pensare : 'ho compassione di qualcuno = mi fa pena'.

Tutt'altro.

Compassione ha radici ben più profonde e deriva direttamente dal latino: cum patire: soffrire insieme.

Soffrire insieme con qualcuno.

Parlando dell'Evgenij Onegin di Puskin, Dostoevskij si fece questa domanda: se un uomo può fondare la propria felicità sulla infelicità altrui.

In che modo placare lo spirito "se dietro a una persona vi è un gesto indegno, privo di compassione, quasi disumano ", che tipo di felicità è mai quella che si basa sull'infelicità altrui ?

Saresti disposto ad essere felice, poniamo il caso, veramente felice a scapito della sofferenza di un povero vecchio, causata (anche per necessità) da te, e sapendo che nessun altro al mondo saprà mai il tuo segreto ?

Dostoevskij allora si figura quello che avrebbe risposto Tatjana, nell'Onegin di Puskin, una pura anima russa, a quella domanda:

" fossi anche la sola a non conoscere la felicità e fosse la mia infelicità incomparabilmente più grande dell'infelicità di quel vecchio uomo, e nessuno, nessuno mio marito venisse a conoscenza del mio sacrificio o lo apprezzasse, ebbene NON VORREI ESSERE FELICE A SPESE DI UN ALTRO. "

Bene.

Ma quanti di noi, nel mondo di oggi condividono il principio, il valore che NESSUNA felicità (anche la più piccola) può essere costruita sull'infelicità (anche la più piccola) di un altro uomo ?

La compassione è proprio l'antidoto a questo principio: io NON posso essere felice, se la mia felicità dipende dall'infelicità altrui, perchè L'INFELICITA' ALTRUI E' LA MIA STESSA INFELICITA'.

Ma già Dostoevskij intravedeva nella MANCANZA di compassione il segno del proprio tempo, nel quale ciascuno rifugge dalla compassione per evitare ulteriori sofferenze personali.

Oggi, potremmo dire, questa sembra essere la regola.

Il mondo sembra dominato dall'interesse. E in nome dell'interesse personale (politico, economico, monetario, sociale, ecc..) la compassione viene sacrificata.

Se posso essere ricco costruendo una fabbrica che produce diossina e rende infelice migliaia di persone, cosa importa ?

Se posso guadagnarmi il posto in ospedale, all'università, al lavoro, a scapito di un altro al quale spetterebbe forse più di me, cosa importa ?

Se posso divertirmi sapendo che il mio divertimento causerà la sofferenza di altre persone, cosa importa ?

Ovviamente la mancanza di compassione non è estinta. Però è gravemente minacciata.

E chi ce l'ha nel sangue, chi ce l'ha professata nel proprio credo religioso, perchè la compassione E' un grande valore cristiano (anzi, forse il principale ?? Ama il prossimo tuo come te stesso..), oggi fa fatica.

Ma non bisogna stancarsi.

Bisogna fare il piccolo, bisogna essere umili, bisogna ascoltare il nostro cuore.

E se lo ascoltiamo davvero sentiamo che lui ci dice sempre la stessa cosa, e cioè che la nostra felicità slegata da quella degli altri non è felicità, e che noi siamo uomini, veramente, solo insieme agli altri uomini.

11/05/09

La vita è un dono.


Rifletto da qualche tempo su questa semplice domanda:" La vita, la nostra vita, è un dono ?"Dalla risposta che diamo a questa domanda discendono molte conseguenze. Se rispondiamo che la Vita non è un dono, ma è una situazione 'già trovata', insomma casuale, le conseguenze sono di un tipo. Se rispondiamo che essa E' un dono (a prescindere, per il momento, dachi ce l'ha fatto) le conseguenze sono altre. Intendiamoci prima sul significato della parola 'Dono'.

Proprio qualche tempo fa su 'Avvenire' Paola Springhetti ha interrogato il filosofo francese Jean-Luc Marion proprio sulla 'filosofia del Dono'.

"Dono" dice Marion " è - lo sappiamo - UNO SCAMBIO SENZA CHE CI SIA UN PREZZO DA PAGARE. Ma l'interpretazione - aggiunge il filosofo - è insufficente. Il dono NON E' lo scambio tra due persone che stanno su di un piano di parità. Infatti lo SCAMBIO è reciproco, mentre il DONO non lo è. "Ora chiediamoci:" Qualcuno mi ha fatto UN DONO mettendomi al mondo ?"


La prima risposta che potremmo dare è che sì, sicuramente qualcuno ci ha fatto un dono - gradito o sgradito ora non ci interessa -mettendoci al mondo: e questi sono i nostri due genitori. Loro lo hanno fatto forse anche aspettandosi un 'ritorno': l'appagamento, la soddisfazione di vedere i figli crescere, la riconoscenza... ma non v'è dubbio che nell'istinto di procreare vi sia prima di tutto una percentuale di 'gratuità': la voglia di mettere al mondo una persona nuova. Un figlio che - come dice eloquentemente Gibran - è come una freccia che noi lanciamo, ma che poi nella vita cadrà dove vorrà, andrà dove vorrà.

E a questo proposito Marion ci dice: " Questo dono (il dono dei genitori che danno la vita ai figli) nonpuò essere ricambiato: un figlio potrà amare il padre, ma non potrà mai essere ciò che il padre è stato per lui. E proprio il susseguirsi delle generazioni ci parla del dono che apre alla vita, a nuovepossibilità, al futuro."
Ma passando dal piano della biologia a quello meta-fisico, la domanda "La vita è un dono ?" si complica. E potremmo formularla così: "La vita è un dono che Qualcuno - oltre ai nostri genitori - ci hafatto ? O è solo frutto del caso ?"

E' la stessa cosa che passa tra trovare per caso un portafoglio pieno di monete in strada, mentre camminiamo, o ricevere lo stesso portafoglio da un donatore, da qualcuno che "ha voluto" darcelo. Le conseguenze che si tirano, sono fondamentali, e le vediamo chiaramente nella nostra vita.

Una volta pensare che la vita sia un DONO di Qualcuno era la norma,era del tutto naturale. Chi viveva si sentiva 'in obbligo' verso questo misterioso donatore. Se ricevi un dono - non ci vuole Marion per capirlo - nasce un diverso sentimento: la tua responsabilità. Ti senti comunque 'in debito'.

Anche se sei il più irriconoscente, il più leggero degli uomini, sentirai dentro di te l'esistenza di questo lascito. Oggi invece il pensiero predominante sembra essere quello che la Vita non è un dono. Ma che la Vita l'abbiamo trovata per caso. E forse, di una cosa trovata per caso, non si sa bene neanche cosa farsene. Anche perchè il trovare una cosa per caso non cancella le domande.

Semmai ne fa scaturire di nuove:
"chi l'ha lasciata questa cosa ?"
"Da dove viene? "
"Cosa significa il fatto che io l'abbia trovata percaso ?"
Se hai un figlio, ti riesce difficile immaginare che la vita non sia un dono.

Tuo figlio ti guarda negli occhi, e ti chiede conto ogni giorno:"padre, grazie, " oppure: "padre, perchè?" o ancora "padre è giusto ?" "padre è sbagliato?"

Ti domanda, un figlio.Ti chiede, sempre, e non si stanca.Nello stato in cui siamo invece, sembra che queste domande, meta-fisicamente, non riusciamo più a porcele. C'è solo un vago rimestare:" se io non ho ricevuto nessun dono, non sono in obbligo con nessuno,non DEVO RENDER conto a nessuno. "


Ma subito dopo la frenesia di libertà che questa constatazione genera,sorge il grande vuoto, che inghiotte anche le altre domande. Se la mia vita NON è un dono, allora non ha nemmeno senso.Perchè E' il dono che stabilisce un senso, una direzione.

La vita è a mio umile avviso, troppo forte, troppo piena di senso,troppo drammatica, troppo 'direzionale', troppo viva, troppo vera, per NON essere un dono.

10/05/09

La Visita di Benedetto XVI - Le parole di Charles de Foucauld.


Nei giorni in cui Benedetto XVI visita la Terra Santa - oggi è ancora in Giordania, domani in territorio Israeliano - una visita molto delicata, sotto molti aspetti, voglio ricordare una figura di un mistico completamente legata a quei luoghi. Quando, diversi anni fa, sono andato a Nazareth vi trovai la testimonianza viva e feconda di Charles de Foucauld. Al ritorno da quel viaggio, ripresi in mano i suoi scritti. Che raccontano tanto, di quei luoghi, e della fede che lì trova un Senso ancor più profondo. Vi riporto qua di seguito un brano della stupenda lettera scritta da De Foucauld a Henri de Castries, nel 1901. Sulla quale si può a lungo meditare.


Caro amico, comincerò facendovi una confessione: la vostra fede aveva solo vacillato, la mia è rimasta completamente morta per molti anni. Per dodici anni ho vissuto senza alcuna fede: nulla mi sembrava abbastanza dimostrato. La stessa fede con cui si seguono religioni così diverse mi sembrava la condanna di tutte. Quella della mia infanzia mi sembrava la più inammissibile, con il suo 1=3 [il mistero della Trinità] che non potevo risolvermi a considerare plausibile:

l’islamismo mi piaceva molto, con la sua semplicità, semplicità di dogma, semplicità di gerarchia, semplicità di morale; ma vedevo chiaramente che era privo di un fondamento divino e che la verità non era lì. Sono rimasto per dodici anni senza negare e senza credere nulla, senza sperare nella verità, e senza nemmeno credere in Dio, visto che nessuna prova mi sembrava abbastanza evidente... Vivevo come si può vivere quando l’ultima scintilla di fede si è spenta... Con quale miracolo la misericordia infinita di Dio mi ha ricondotto da tanto lontano?

Mentre ero a Parigi per far stampare il resoconto del mio viaggio in Marocco, mi sono trovato insieme a persone molto intelligenti, molto virtuose e molto cristiane e mi sono detto che forse questa religione non era assurda; al tempo stesso, una grazia interiore estremamente forte mi spingeva. Mi misi ad andare in chiesa, senza credere; solo lì mi trovavo bene, e passavo lunghe ore a ripetere questa strana preghiera: «Mio Dio, se esistete fate che Vi conosca!»..

Mi venne l'
idea che dovevo informarmi su questa religione, dove forse si trovava quella verità che disperavo di trovare; e mi dissi che la cosa migliore era quella di prendere lezioni di religione cattolica, così come avevo preso lezioni di arabo; come avevo cercato un buon thaleb che mi insegnasse l'arabo, così cercai un sacerdote istruito che mi desse informazioni sulla religione cattolica...

Mi parlarono di un sacerdote molto distinto, ex allievo dell’Ècole Normale; lo trovai nel suo confessionale e gli dissi che non ero lì per confessarmi, perché non avevo fede, ma che desideravo avere qualche informazione sulla religione cattolica...

Il buon Dio, che aveva cominciato in modo così potente l’opera della mia conversione, attraverso questa grazia interiore così forte che mi spingeva in chiesa quasi irresistibilmente, la portò a termine: il sacerdote divenne il mio confessore e, per i quindici anni trascorsi da allora, non ha smesso di essere il mio migliore amico. Non appena credetti che c'era un Dio, compresi che non potevo fare altro che vivere per Lui: la mia vocazione religiosa risale alla stessa ora della mia fede.Non appena seppi che c’era un Dio non ho potuto far altro che dargli fiducia...“.


Vita di Charles de Foucauld:



Notizie in tempo reale sulla Visita del Papa in Terra Santa:



Altri scritti di Charles de Foucauld:



Album fotografico di Charles de Foucauld:



04/05/09

La risposta di Enzo Bianchi a Mancuso. Nessuna salvezza al di fuori di Gesù Cristo.


Pubblico qui di seguito la risposta di Padre Enzo Bianchi, priore della Comunità di Bose, all'articolo pubblicato da Vito Mancuso, di cui abbiamo dato notizia nel post precedente.


Nessuna salvezza al di fuori di Gesù Cristo.


Il senso cristiano della parola «salvezza» è sempre più sconosciuto, eppure la domanda di salvezza - anche se espressa con termini diversi - risuona con forza perché oggi più che mai emerge il desiderio di ogni uomo e di ogni donna. Essere liberi dalle alienazioni che contraddicono la condizione umana, redenti dalla morte e dalla sofferenza nelle sue molteplici forme, liberati dalle schiavitù che opprimono il corpo e la psiche e impediscono all’uomo di essere ciò che vorrebbe, salvati dal male che si può fare o ricevere: tutto questo significa trovare salvezza, salvarsi, essere salvati. Tutti gli esseri umani sono abitati da una domanda di salvezza che talora si manifesta come grido disperato, talaltra come ricerca perseguita con impegno e determinazione, altre volte ancora sotto la forma di un interrogativo inespresso, una non-domanda. L’apostolo Paolo nella Lettera ai Romani coinvolge in questa domanda di salvezza il cosmo intero: «la creazione attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio... e nutre la speranza di essere pure lei liberata dalla schiavitù della corruzione... Tutta la creazione geme e soffre fino a oggi nelle doglie del parto» (Rm 8,19-23). La salvezza cristiana ha allora una portata cosmica: vi è una speranza di salvezza, una trasfigurazione avvertita come necessaria dal cosmo intero.


Così, quando l’uomo chiede salvezza, si fa voce anche di tutte le creature, animate e inanimate. A questo dolore cosmico non può che corrispondere una salvezza cosmica, salvezza che appare soprattutto come liberazione dalla morte, come nuova creazione dove «non ci sarà più la morte, né il lutto, né il lamento perché le cose di prima sono passate» (Apocalisse 21,4). Con una certa audacia si potrebbe affermare anche che ogni essere umano, in virtù di un dinamismo che precede il suo volere e il suo sentire, è attirato verso la salvezza assieme a tutta la creazione. Salvezza che, per essere autentica, deve declinarsi come liberazione dalla morte: così nella loro attesa di salvezza i cristiani sono chiamati a sperare per tutti nella venuta definitiva del Signore che apporterà alla storia il suo compimento. Ora, nella fede cristiana questa salvezza è azione di Dio nella storia, dall’in-principio fino a quando la storia stessa troverà il suo compimento. Per i cristiani, quindi, c’è una storia di salvezza grazie a un’azione di Dio - acclamato già da Israele come Goel, «Redentore», nell’uscita dall’Egitto - che ha il suo culmine nell’incarnazione, nell’umanizzazione di suo Figlio.

Il Dio dei cristiani è il Dio che salva, che si prende cura del sofferente; è il compassionevole che accorre dove c’è la vittima, le si fa vicino e non l’abbandona neanche al di là della morte. È quanto ha fatto Gesù - il cui nome significa «il Signore salva» - con le persone che incontrava: è passato tra gli uomini salvando le vite, come ci testimoniano i Vangeli con la loro narrazione di storie personali e di relazioni con Gesù. E avendo vissuto l’amore fino all’estremo e senza contraddizioni, Gesù quale Figlio è stato risuscitato dal Padre in modo che l’amore di Dio, l’amore che è Dio vincesse la morte. L’evento dell’alba pasquale sigilla la presenza della salvezza autentica: Gesù risorto ha trionfato sulla morte ed è veramente il Kyrios, il Signore della Chiesa e del cosmo. Questa è la fede cristiana e la declinazione della salvezza cristiana, oggi non capìta neppure da molti cristiani che non osano credere nella risurrezione di Gesù, nella vittoria dell’amore sulla morte e sovente preferiscono pensare alla salvezza come realizzazione di sé, guarigione, felicità da acquisire nell’istante che passa, speranza terapeutica di tutti gli aspetti della realizzazione di sé. Così l’attesa della salvezza si è fatta individualistica: ciascuno si limita a sperare per sé, per la realizzazione dei propri interessi, identificando la salvezza con una promessa personale di vita senza gli altri o persino contro gli altri.

Questa deriva dell’idea di salvezza va denunciata con chiarezza senza pertanto misconoscere le molteplici ferite che affliggono l’esistenza quotidiana, le sofferenze nascoste sotto la superficie patinata di una società costantemente intenta a darsi un’immagine luccicante di illusioni. Ecco perché la storia della salvezza va coniugata con la salvezza delle storie: già qui e ora si può sperimentare la salvezza come arte del vivere quotidiano, una salvezza sì personale, ma anche solidale con gli altri e con il cosmo. È quanto ha testimoniato l’esistenza terrena di Gesù, il suo percorso di ricerca del senso della vita, della liberazione dalla morte.

La fede cristiana pensa dunque che la salvezza è opera di Dio, che l’uomo non si salva da se stesso, che questa salvezza ha avuto la sua pienezza in Gesù Cristo, l’unico salvatore del mondo, al quale competerà l’atto finale della storia, il «giudizio» che mostrerà come la salvezza è stata offerta a tutti ed è da tutti perseguibile, ma rivelerà anche chi potrà parteciparvi, in base alle scelte operate durante la propria vita, scelte secondo l’amore, che portano alla via della vita, o scelte contro l’amore, che conducono sulla via della morte e del nulla. Purtroppo oggi nella Chiesa questa predicazione sul giudizio escatologico è carente rischiando così non solo di dimenticare l’orizzonte della storia e le realtà ultime, ma anche di smarrire la comprensione della vera e definitiva salvezza.

Un filosofo ateo come Adorno ha osato pensare la liberazione per tutti e non a caso ha concluso che questa potrebbe esserci se ci fosse un giudizio finale, una risurrezione dei morti che introducesse le vittime della storia in una condizione di salvezza e di restituzione all’integrità. Questa per i cristiani è una convinzione essenziale della fede: se infatti Cristo non è risorto, se non ci sarà giudizio finale, vana è la nostra fede e noi cristiani siamo da compiangere come i più miserabili (cfr. Prima Lettera ai Corinti 15, 17-19). A questa concezione cristiana si opposero ben presto altre letture della salvezza o altre salvezze, come quella dichiarata dalle «gnosi», dove la salvezza consiste in una presa di coscienza da parte dell’uomo di se stesso e della sua identità divina originale avente in sé, senza Dio, una capacità di redenzione. Oggi, sulla scia delle gnosi, attraversano la nostra cultura molte concezioni di salvezza che negano o attenuano l’azione di salvezza del Dio vivente nella storia: poco attente alla «storia di Gesù di Nazareth», sono portate a relegare l’evento della croce e della risurrezione di Gesù a semplice eloquenza dell’amore. Se la vicenda della rivelazione di Dio da Abramo a Mosè fino a Gesù è ridotta a una storia particolare, che riguarda un tempo e un popolo particolare, la si coglie come vicenda incapace di portata universale, come invece l’ha sempre letta la tradizione cristiana.

È per questo che, senza voler giudicare eretico Vito Mancuso né tanto meno volerlo condannare, ho letto i suoi due ultimi libri come appartenenti alla galassia di una gnosi oggi risuscitata. La fede cristiana, e non solo quella cattolica, è invece convinta che Gesù di Nazareth è stato ed è «l’immagine del Dio invisibile», «l’esegesi del Padre», il Figlio di Dio fattosi uomo, il giusto condannato e crocifisso perché in un mondo ingiusto questa è la fine che spetta al giusto. Sì, Gesù ha vissuto l’amore e la giustizia fino all’estremo e ci ha insegnato a vivere così quale vero uomo, l’uomo come Dio lo ha pensato nel crearlo. Con la risurrezione Dio ha mostrato che l’amore vissuto dall’uomo Gesù vince la morte e che dunque la salvezza è data a tutti quelli che si conformano a lui. Ecco perché, se nel mondo non ci fosse la Chiesa, verrebbe meno il segno e lo strumento del piano di Dio di riunire tutti gli uomini nell’unico corpo di Cristo, così che «l’uomo diventi Dio», secondo l’adagio dei padri orientali. Ma a questa salvezza possono partecipare tutti gli uomini di tutte le epoche e di tutte le culture quando, percorrendo vie di umanizzazione, si rendono conformi a Dio. È quanto ha rivelato Gesù nel discorso sul giudizio universale nel Vangelo secondo Matteo. L’evento della morte-risurrezione di Gesù per i cristiani è l’unico evento di salvezza, un evento di portata universale: «Cristo è morto per tutti - ricorda il concilio - e la vocazione ultima dell’uomo è effettivamente una sola, quella divina; perciò dobbiamo ritenere che lo Spirito Santo dia a tutti la possibilità di venire associati, nel modo che Dio conosce, al mistero pasquale» (Gaudium et spes 22).

Tutti gli esseri umani, non solo i cristiani, non solo quelli che sono nella Chiesa, ma anche quelli «extra ecclesia» possono essere salvati da Cristo e la salvezza ha destinazione cosmica. Questa visione della storia di salvezza non si nutre di «miserabili artifizi, né di salti logici clamorosi», ma nasce dalla visione consegnataci dall’Antico e dal Nuovo Testamento in cui un popolo marginale, Israele, un ebreo marginale, Gesù, una comunità marginale come la Chiesa non sono una delle storie possibili, ma la storia scelta da Dio per fare alleanza con tutta l’umanità, perché il suo Nome possa regnare come speranza di salvezza per tutti quelli che nella libertà e per amore aderiscono alla buona notizia o all’immagine di Dio impressa per sempre da Dio stesso in ogni uomo fin dalla creazione. La storia del popolo di Dio, la vicenda terrena di Gesù è particolare, ma con la sua morte e risurrezione Gesù è anche morto all’appartenenza ristretta a un gruppo particolare, per rinascere all’universalità, a una presenza diffusa ovunque dal suo Spirito santo. La salvezza passa sì attraverso una storia particolare, ma è destinata e si estende universalmente.



ENZO BIANCHI - La Stampa 3 maggio 2009.